Covid, la Cia ha occultato la verità: "Ecco l'origine del virus"
L’ipotesi non è nuova. Però sono nuove le indiscrezioni: che, poi, “indiscrezioni” lo sono fino a un certo punto dato che a farle è un “whistleblower” (come dicono gli americani), cioè una “gola profonda”, rigorosamente anonima, un funzionario di alto livello della Cia che non ha bisogno di ulteriori chiarimenti ma è l’agenzia di spionaggio degli Stati Uniti. E, appunto, di spionaggio (o meglio, di insabbiamento) si tratterebbe. Il Covid. Quegli anni bui, quelli che ci ricordiamo tutti, quelli del 2020 e del 2021, dei lockdown e delle quarantene di massa, della pandemia che per sua natura è planetaria e di un virus sulla cui origine, ancora, non s’è fatta luce.
Chi dice sia stata una “semplice” zoonosi (il passaggio da un animale all’uomo, maledetto pipistrello) e chi, da tempo, sostiene ci sia stato un errore in laboratorio. A Wuhan. E anche chi, adesso, annuncia che la Cia si sia offerta di pagare sei analisti per mettere a tacere questa seconda possibilità, tra l’altro giudicata «più che probabile». A metà tra un film di fantascienza e la (sola) scienza: quella dei camici bianchi e dei ricercatori e delle provette.
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Ma anche degli agenti di Langley, di lettere inviati al direttore William Burns e della politica (che c’entra sempre, tutto è politica: persino, o soprattutto, le emergenze sanitarie). La “gola profonda” del Sars-Cov2, e a renderlo noto è il giornale statunitense New York Post, ovviamente ripreso da mezzo mondo e anche dall’altro mezzo, avrebbe riferito ad alcuni componenti della commissione sulla pandemia della Camera (Usa) che nei mesi passati, su un team di sette biologi impegnati a ricercare le cause originarie del virus, ben sei «ritenevano che l’intelligence e la scienza fossero sufficienti per effettuare una valutazione, con scarso margine di dubbio, secondo la quale il Covid-19 provenisse da un laboratorio in Cina». Epperò, pare di capire, siano stati zittiti. A suon di dollari, ossia «la Cia ha cercato di ripagarli se avessero cambiato quella posizione».
Lo “spione delle spie” parla (più o meno apertamente) di «un significativo incentivo monetario»: e il fatto che il direttore degli affari pubblici di Langley, Tammy Kupperman, si sia precipitato a contrattaccare che «noi siamo impegnati a rispettare i più alti standard di rigore analitico, integrità e obiettività e non paghiamo gli analisti per raggiungere conclusioni specifiche» (dichiarazione da manuale), come in ogni spy-story che si rispetti, lascia quell’alone di mistero che non si scalfisce. Anche perché, a essere del tutto onesti, l’ipotesi di un errore nei corridoi del laboratorio di Wuhan non nasce oggi, anno domini 2023, ma è vecchia come la notte dei tempi del Covid ed è stata avvalorata sia dal direttore dell’Fbi Christopher Wray (un rapporto del Bureau bolla «il potenziale incidente» come il fattore «più probabile») sia, per restare a casa nostra, da esperti del calibro di Giorgio Palù, che è il direttore dell’Aifa, l’Agenzia del farmaco italiano, quindi un professore il cui curriculum parla da solo e che, già l’anno scorso, in un intervista al Corriere, suggeriva di non escludere nessuno scenario, nemmeno quello «di una manipolazione effettuata per soli scopi di ricerca, non certo con intenzioni malevole».
Dibattito aperto, insomma. Più che mai ora. Con l’unica certezza che il Covid sia effettivamente partito da lì, dalla Cina, da Wuhan, e che (laboratorio o meno, sbaglio o no) delle responsabilità in fatto di allarme tempestivo, avviso alla comunità scientifica, segnalazioni e sollecita prevenzione ci siano state e guai a non metterle sul conto. Adesso, che la pandemia diventata pandemonio si è smorzata e amen e così sia. Il resto del libro lo scriveranno le commissioni (non c’è mica solo quella nordamericana) sulla questione. È un lavoro, sotto vari aspetti, non solo conveniente ma anche necessario.
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