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Giorgia Meloni da Biden? Senaldi svela le vere ambizioni

Pietro Senaldi
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Oh, yes! Ma anche oh, cavolo... Perfar colpo alla Casa Bianca, Giorgia Meloni non si è portata Bebe Vio o Giorgio Armani, Roberto Benigni o Raffaele Cantone o altre nobili figurine del genio italiano d’esportazione, come invece aveva fatto l’allora premier Matteo Renzi, invitato a cena da Obama. La presidente del Consiglio non è andata a Washington a cazzeggiare o in cerca di pubblicità. È in viaggio d’affari, non autopromozionale, e gli americani, gente pratica e spiccia quando si tratta di lavoro, ne hanno apprezzatola concretezza.Ma qualcosa è andato diversamente (dalle aspettative e alla fine è nato un caso sulla conferenza stampa comune tra lei e il presidente Usa, Joe Biden. Conferenza che non è mai stata annullata: non era stata fissata. Ma qualcuno ne ha approfittato per mettersi a ricamare. L’intesa di massima c’è, l’amicizia tra i due Paesi è salda, tanto che la Casa Bianca ha dichiarato che i rapporti tra i due Paesi non sono mai stati così vicini. Però si è verificata un’incomprensione sulla Via della Seta.

 


Washington si aspettava che Giorgia annunciasse ufficialmente il mancato rinnovo del trattato commerciale che il primo governo Conte ha stipulato con la Cina, che alla nostra economia ha creato più danni che benefici e va disdettato entro l’anno, pena prosecuzione automatica. La Meloni invece ha preso tempo. Intende sfilarsi ma senza strappi drammatici, così da tutelare al massimo le imprese italiane. Più che gli applausi e la benevolenza a stelle e strisce, per lei conta la sorte delle nostre industrie. L’obiettivo della missione è rinsaldare i rapporti tra Usa e Italia, già in parte recuperati dal governo Draghi dopo le stravaganti derive orientali di Conte e l’impalpabilità in politica estera dei vari premier del Pd non eletti che si sono succeduti nell’ultimo decennio, tutti più preoccupati di non far arrabbiare Berlino e Parigi piuttosto che di intrecciare relazioni efficaci oltre Oceano.


RAPPORTI DI FORZA
Il mondo sta esplodendo. Ci sono potenze come Russia, Cina, Brasile, Sud Africa e India, anche se quest’ultima di recente ha riallacciato i rapporti con gli Usa, i cosiddetti Brics, che stanno cercando un dialogo tra loro per dare scacco allo Zio Sam e ridisegnare i rapporti di forza del pianeta. Washington è alla ricerca di un interlocutore affidabile all’interno dell’Unione Europea, ora che Londra ha salutato la compagnia. I cugini americani nutrono scarsa fiducia in Parigi, da sempre poco atlantista e ora inutilmente persa nel suo tentativo di rinverdire una grandeur très démodé e ancora meno in Berlino, considerata un competitor economico pericoloso e che il ventennio della Merkel ha spostato troppo verso Mosca. Per l’Italia si apre un’autostrada e il pregio della Meloni è di averlo capito. L’intuizione è stata possibile perché il nostro premier non nutre quel complesso di inferiorità verso l’Europa di cui è vittima la sinistra, che ha cercato di legittimare il proprio potere fondato su scarso consenso e di coprire le proprie carenze di visione e di gestione dello Stato nascondendosi sotto le gonne della Ue ogni volta che doveva prendere una decisione o giustificare un comportamento.

 

 

Solo che l’Unione non esiste come soggetto politico autonomo ma è un consiglio d’amministrazione dove comandano Francia e, un po’ di più, Germania e conseguentemente, per farsi dire «bravi», i governi progressisti hanno scelto di obbedir (a loro) mentendo (a noi). Consapevole del declino franco-tedesco, l’europeista Meloni vuole sedere in Europa da pari a pari con gli altri, un po’ come De Gasperi nel ’57 al Trattato di Roma e per questo ha cominciato a sviluppare una politica estera coraggiosa e autonoma, dall’Ucraina, al sogno di una maggioranza di centrodestra a Bruxelles, al piano Mattei per l’Africa.


LE SFIDE
A Washington Giorgia non cerca una consacrazione, patriotticamente convinta che quella gliela possono dare solo gli italiani, ma un salto di qualità per il nostro Paese sullo scacchiere internazionale. Più andiamo d’accordo con gli Usa, più contiamo in Europa e più il piano per il contenere l’immigrazione clandestina e per lo sviluppo dell’Africa, che è una delle sfide principali di questo governo, ha possibilità di successo. E gli Usa contano sull’Italia anche per evitare la deriva del Continente nero, dove già Russia e Cina la fanno da padrone in molti Stati, verso i Brics. Il piano Mattei ha una funzione ristabilizzante, dopo la disastrosa politica di Obama delle primavere arabe, cavalcate con ingordigia e approssimazione da Parigi, della quale l’America ha estremo bisogno. Stabilità in Europa e Africa sono l’interesse comune di Washington e di Roma e questa si raggiunge con la costruzione di un asse solido che le altre nazioni non vogliono o non possono costruire.

Il pedaggio che l’Italia deve pagare per percorrere l’autostrada che le si apre davanti però è chiaro quanto salato: affidabilità sul posizionamento, incondizionato, all’interno dell’asse atlantico e rimozione delle ambiguità con Pechino, alimentate dall’accordo sulla Via della Seta, firmato da Conte e Di Maio e che si è rivelato un affare perla Cina e una fregatura per noi, visto che Berlino e Parigi, che non lo hanno sottoscritto, hanno incrementato gli affari con il regime più di quanto non l’abbia fatto Roma, imprigionata dalla tela di Grillo e discepoli. Su questo punto, la Cina, che ormai gli Usa ritengono il loro unico rivale a livello mondiale come un tempo era Mosca, Biden (o meglio i poteri di cui il presidente è ormai solo maldestro portavoce) non fa sconti. Pretendeva l’abiura pubblica, ma sarebbe stato troppo, un bacio della pantofola che mal si adatta alla dignità personale della Meloni e a quella che il governo vorrebbe restituire alla nazione. Alla guida dell’Italia non c’è più la schiera di zerbini progressisti alla quale all’estero avevano fatto un po’ tutti la bocca.

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