Netanyahu va in Cina: ecco il nuovo disastro di Biden
«Rimuovere gli occhi e le orecchie del terrore». È questo, secondo un comunicato congiunto delle Israeli Defense Forces e dello Shin Beth, l’intelligence interna israeliana, il senso della maxi-operazione dell’apparato di sicurezza scattata nella notte tra domenica e lunedì nel campo profughi di Jenin, in Samaria. Lunedì sera l’operazione era ancora in corso con oltre mille operativi Idf che circondavano il campo profughi dal quale salivano alte nuvole di fumo. Lunedì pomeriggio il ministro della Difesa di Gerusalemme, Yoav Gallant, ha affermato che i piani stavano «progredendo come previsto». Secondo fonti israeliane sono dieci le persone che hanno perso la vita nell’attacco: si tratterebbe di giovani e giovanissimi miliziani soprattutto del Pij, il jihad islamico palestinese molto cresciuto in mesi recenti grazie al supporto iraniano.
Se di norma Teheran opera al di fuori dei propri confini per il tramite di alleati (come gli Hutu in Yemen ed Hezbollah in Libano), il Pij è uno strumento diretto degli ayatollah. Le sue azioni contro i civili israeliani hanno il doppio scopo di impegnare il nemico e dimostrare ai palestinesi e al mondo arabo che la Cisgiordania non risponde più a Ramallah, la capitale dell’Autorità palestinese dello screditato presidente Abu Mazen, ormai incapace di garantire la sicurezza nella regione, ma direttamente al governo del clero iraniano.
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ARSENALE SEQUESTRATO
Nel giro di poco tempo il campo profughi di Jenin è diventato lo snodo della distribuzione di armi e di ispirazione di attacchi condotti anche da altre località come Nablus e il campo profughi di Balata, più a sud. Secondo i primi resoconti le Idf avrebbero recuperato quantità ingenti di esplosivi, mitragliatori, missili nascosti fra le abitazioni e le strutture civili. Ripulire il campo profughi dal materiale bellico e distruggere le cosiddette “sale di controllo” del terrore serve al governo di Benjamin Netanyahu per ripristinare la deterrenza sui territori: ecco il senso di un’operazione in grande stile, forse la più grande dalla Seconda intifada, con l’esercito fuori dal campo mentre gli operativi dell’Unità Yahalom guidati dagli specialisti dello Shin Beth puntano agli arsenali del terrore protetti dai miliziani.
Il rischio di agire in un campo profughi ad altissima densità abitativa è però quello di causare vittime civili: poche ore dopo lo scoppio delle ostilità fra Idf e miliziani a Jenin, Abu Mazen ha condannato l’azione subito imitato dalla diplomazia giordana egiziana ed emiratina e poi dell’intera Lega araba. Ma Israele fa quadrato. In un paese dove la polarizzazione politica è ai massimi con metà del paese che scende da cinque mesi in piazza accusando il premier di essere un corrotto e il suo piano di riforma della giustizia uno schema per imporre la dittatura sul paese, ieri il leader dell’opposizione ed ex premier, Yair Lapid, ha dichiarato: «Invece di censurare quello che stiamo facendo a Jenin, vorrei ricordare i 28 israeliani rimasti uccisi in atti di terrore negli ultimi mesi, inclusi tre coppie di fratellini. I nostri bambini vengono massacrati, Israele ha ogni diritto di difendersi e noi dell’opposizione sosteniamo le Idf e il governo in questo frangente».
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SGARBO A WASHINGTON
Non condanna Israele, invece, la Casa Bianca consapevole che di fronte all’escalation del terrore, il governo Netanyahu aspettava la fine della festa islamica del Id al-adha per colpire il Pij e i suoi alleati. Eppure i rapporti sull’asse Gerusalemme- Washington non sono ai massimi. Di questi giorni è l’annuncio di Netanyahu di una sua imminente visita in Cina: l’atteso incontro con Xi Jinping è reso più rilevante dal mancato invito da parte di Joe Biden al premier israeliano da poco tornato alla guida del governo. Uno sgarbo che in Israele fa molto rumore.
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