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Titan, Dawood e quei padri che vogliono il figlio fotocopia

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Francesco Specchia
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Non c’è nulla di più innaturale di un padre che uccida il proprio figlio solo per compiacere sé stesso. Non c’è nulla di più straziante del figlio che regali al padre la propria morte per la Festa del Papà. Questo della tragedia del Titan, inghiottito dalla tragedia del Titanic, sembra un film di quelli catastrofici. Te li immagini bloccati a 400mila metri di profondità, mentre, a 500 metri, il relitto che volevano esplorare gli proietta la sua maledizione. Eccoli, l’uomo d’affari britannico/pakistano Shahzada e lo studente Suleman Dawood, padre e figlio, pochi secondi prima dell’implosione: stretti in magma di lacrime, sangue e lamiera. Abbracciati nel sibilo a mantra delle sure del Corano, invocando Allah. Rannicchiati tra le pareti di una bara tecnologica in acciaio e carbonio, che stringono sempre più fino a mozzarti il fiato e a spezzarti le ossa; fino al botto sotto chilometri d’oceano, appena avvertito dai sonar della marina militare. Eccoli, gli agnelli sacrificali dell’insipienza umana. C’è qualcosa di terribilmente idiota e, al contempo, di shakespeariano nella storia del mini-sottomarino per il cui viaggio nell’abisso, cinque milionari eccentrici avevano pagato 200mila euro a testa. Morire, così, affogati come topi tra i fondali, è bestiale.

 

 

 

IL CUBO DI RUBIK

Ma lo è ancor di più se si considera che, tra tutti i fanatici membri del piccolo equipaggio deceduti sul colpo, non doveva esserci il giovane Suleman, 19 anni, brillante studente all’Università di Glasgow dove aveva appena completato il primo anno alla Business School. La verità è che il ragazzo, in quel mini-sottomarino, non ci voleva proprio salire. La zia di Suleman ha rivelato alla NBC News che lui aveva detto di sentirsi «terrorizzato» per il viaggio, ma voleva compiacere il padre, in occasione della festa del papà, celebrata il weekend scorso (18 giugno) negli Stati Uniti. Non si trattava solo di claustrofobia, ma di terrore puro.

Insomma, Suleman era sicuramente un ragazzone eclettico, dal sorriso perpetuo. E, nella foto ufficiale col papà –immagine che ora galleggia nei social- non lascia disvelare ombra di dissenso, accenno di dubbio, traccia di paura. Ma Suleman era anche un ragazzo normale, «grande fan della letteratura di fantascienza e dell’apprendimento di cose nuove, interessato ai cubi di Rubik e al gioco della pallavolo»: tutto il contrario del padre Shahzada, figura titanica, vicepresidente di un intero conglomerato industriale, teso al rischio e all’avventura. Un uomo ricco e potente divorato dal senso del riscatto sociale e della competizione. Uno squalo d’industria eroso dal narcisismo e dall’adrenalina, che avrebbe voluto avere un figlio-fotocopia. A costo di trascinarlo con lui all’inferno.

Perché –ricordiamolo- tutti i passeggeri del Titan sapevano esattamente del rischio di morte: avevano firmato uno scarico di responsabilità a beneficio dell’azienda trasportatrice. Avevano firmato tutti. Anche Suleman, e immaginiamo in quale stato d’angoscia. Ora, al di là del lutto, quel che colpisce è la bolla d’irrealtà di un padre eccessivo che spinge e trascina il figlio con sé verso morte terribile. La voce del sangue che si fa davvero sangue. Ed è l’esatto contrario della freudiana «uccisione del padre»: è una forma d’annichilimento in cui rischiano di cadere – e cadono - molti figli di genitori dalla personalità ingombrante e terribile, da Edoardo Agnelli morto suicida figlio di Gianni, a Diego Armando Maradona Junior che neanche raggiunse la scia del padre, ai vari rampolli Kennedy con le loro vite consumate nell’ombra di John. Per dire. Fare il padre, in realtà è un mestiere estremo che non t’insegna nessuno; e che impari andando a tentoni con la consapevolezza che i tuoi figli –come ripeteva Bacon- restano ostaggi dati alla sorte.

 

 

 

MESTIERE ESTREMO

Ogni giorno, osservare tuo figlio che cresce dev’essere per il tuo ego e le tue ambizioni un lavacro di realtà. Lo deve essere, pure se tutto il tuo essere va nella direzione opposta. In realtà tu vorresti intimamente che l’erede, ad ogni centimetro di crescita, in ogni muscolo e in ogni sinapsi, riflettesse una parte di te stesso: che facesse le tue stesse scelte scrostate dai dubbi (in cui pure tu ti consumavi, alla sua età); che percorresse i tuoi sogni, vivesse i tuoi entusiasmi, guardasse il mondo nella tua visuale. E la voglia di giustapporre la tua vita alla sua diventa irresistibile. Una specie di sindrome del clone. Vorresti che il figlio, cresciuto, vivesse quello che Massimo Recalcati chiama «il complesso di Telemaco» dal figlio di Ulisse in attesa del ritorno del padre mentre «prega affinché sia ristabilita nella sua casa invasa dai Proci la Legge della parola». Ma qua si parla del «giusto erede» di un padre, Ulisse, che riconosce le sue buone intenzioni ma pure i suoi immensi limiti. Nel caso dei Dawood, l’egoismo del padre ha prodotto solo Narciso, è il côté d’un odioso cordoglio... 

 

 

 

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