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Viktor Orban, la rivelazione: "Perché l'Europa mi tratta da pecora nera"

Pietro Senaldi
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Lui non è cattivo, lo disegnano così. «Siamo le pecore nere, ma per noi ungheresi non è un problema. Cantiamo fuori dal coro da sempre, lo facevamo anche quando stavamo sotto l’Unione Sovietica, oltre Cortina, e siamo stati i primi a batterci per la libertà». Viktor Orbán siede nella sala riservata dell’Hotel de Milan, dove è sbarcato per presenziare ai funerali di Berlusconi. Si è fatto accompagnare da Rachele, una delle quattro figlie, il quinto è un maschio, Gaspar. «Sono qui inversione privata» dice in maniche di camicia, perché il caldo pomeridiano picchia, «mi ci ha portato il cuore. Con Silvio eravamo amici dall’autunno del 1993. Mi cercò perché voleva già scendere in politica e stava organizzando incontri con i leader che riteneva più interessanti, per rubare loro il mestiere. Io all’inizio ero riluttante ma lui mi mise un’esca ghiotta, mi invitò al ristorante di Milanello, promettendomi che avrei pranzato con Van Basten e Capello. Mantenne la parola ma poi nel pomeriggio mi mise ai lavori forzati: un questionario di venti domande su quel che avevo in testa. «Voglio apprendere dai politici che non sono veri politici ma che ragionano fuori dal coro. Tu segui strade diverse... E così, dalla politica nacque la nostra amicizia».

 

 

 

Il leader di Forza Italia ha poi seguito i suoi consigli?
«Sulla guerra in Ucraina la pensava in maniera molto simile a me. E, mi creda, anche sull’Europa, che ha manovrato per farlo cadere perché non voleva sottostare alle regole tedesche e olandesi, che sono le sole che contano».

Berlusconi è universalmente riconosciuto come un europeista...
«Lo era, infatti voleva cambiare questa Unione. La vera valutazione della figura di Berlusconi inizia, non solo qui in Italia ma in tutta Europa, da ora che lui non c’è più. Perciò rilascio questa intervista, per difendere il mio amico da una sinistra che lo attacca anche dopo morto».

Allude alle polemiche sollevate per il lutto nazionale proclamato dal governo in occasione dei funerali del presidente?
«Sono stato al funerale, dove ho visto la commozione delle autorità. Ma ho fatto in tempo anche a toccare il dolore degli italiani in piazza. Il lutto nazionale ci sarebbe stato anche se non fosse stato proclamato, perché è stata una giornata di tristezza e ricordo per la stragrande maggioranza degli italiani».

Cosa pensavano di Berlusconi in Ungheria?
«Berlusconi perla maggior parte degli ungheresi è il Milan. Per il resto, anche da noi la sinistra, che è parte della grande alleanza progressista liberticida, ha cercato di demonizzarlo. Io invece, come tutti gli ungheresi amanti della libertà, l’ho sempre sentito vicino».

Ma quindi Berlusconi era un putiniano, come lei d’altronde?
«Chiunque sulla guerra in Ucraina non la pensi come Biden viene tacciato di putinismo. Lo direbbero anche del Papa, e non lo fanno solo per sacro rispetto. Berlusconi era un uomo di pace e aveva dei rapporti eccellenti con Putin. Se si fosse voluto, avrebbe potuto essere utilizzato come mediatore e sono certo che avrebbe trovato una strada diplomatica».

E lei, presidente, è un putiniano?
«Come potrei? Noi ungheresi abbiamo avuto i piedi dei russi sulla testa. Io la penso come Silvio e come il Santo Padre, solo che la nostra voce in Europa è minoritaria».

Perché difendiamo l’Occidente e la libertà: se cade Kiev, cade la nostra frontiera...
«L’Italia è lontana e le bombe sull’Ucraina la riscaldano. L’Ungheria invece ne viene bruciata. In Ucraina c’è una comunità di 200mila ungheresi che vengono arruolati e muoiono.
Siamo una nazione di neanche dieci milioni di abitanti ma ospitiamo un milione di profughi ucraini. Istruiamo bambini ucraini in 1.200 nostre scuole, diamo borse di studio a studenti ucraini. Noi vogliamo la pace perché questo conflitto lo viviamo sulla nostra pelle».

Quante speranze dà alla pace?
«Poche. L’Occidente, ma io direi gli Stati Uniti, vuole sconfiggere la Russia e considera l’Ucraina un mezzo per farlo. In Europa, a parte noi, nessuno fiata, perché nessuno vuole sfidare Washington. Mala maggioranza silenziosa la pensa come me e sono persuaso che l’atmosfera cambierà tra qualche mese. Intravedo i primi segnali».

E quante speranze dà all’Europa?
«Se non cambia, l’Europa è perdente; e torno al discorso del Berlusconi europeista, che mi diede una grande lezione di economia. Silvio fu il solo a capire che quella partita nel 2007 negli Usa non era la solita crisi ciclica del capitalismo, che come arriva prima o poi se ne va».

Berlusconi voleva rispondere aumentando il debito...
«Che fu quello che l’Europa fece anni dopo, con il bazooka di Draghi. Ma ai tempi, Germania e Francia, i cui errori contribuirono ad aumentare i danni della crisi, approfittarono della congiuntura per attaccare l’Italia sui conti, impedendo di fatto il cambiamento dell’Unione e innescando quel processo di perdita di centralità e concorrenzialità che sta indebolendo il nostro continente. Non possiamo continuare a fare finta che non esistano modelli economici più efficaci e competitivi rispetto a quelli costruiti negli anni ’60 e’70 che l’Europa ancora difende».

Lei ha una ricetta berlusconiana per l’Europa?
«Silvio fallì nel tentativo di cambiare Bruxelles, dove perdono tutti tranne Berlino e L’Aja. Io ci provo e forse avrò più fortuna. Noi siamo un Paese piccolo, il nostro debito pubblico non è alle stelle e quindi possiamo applicare ricette diverse da quelle che la Ue impone ai grandi Stati membri. Se fossimo più grandi non ce lo farebbero fare, così invece...».

Veramente mi pare che l’Europa vi abbia nel mirino...
«Sì, ci attaccano sui diritti perché non condividono la nostra sovranità economica. Proponiamo un modello diverso da quello spacciato dai burocrati di Bruxelles come il solo possibile ma che in realtà è una sorta di dirigismo centralistico di tipo sovietico. Abbiamo la flat tax, un sistema di tassazione diverso, sostegni particolari alle famiglie tradizionali, siamo quasi a immigrazione zero, difendiamo la nostra concorrenzialità monetaria. Non siamo per lo Stato sociale ma per lo Stato fondato sul lavoro. Siamo patrioti, come lo era Berlusconi».

Lei respinge l’accusa di essere una democrazia ad alto tasso di autoritarismo?
«Quella della democratura è una cretinata dei politici e degli intellettuali di sinistra. Esistono due regimi politici al mondo, la libertà e la dittatura. L’Ungheria è un Paese libero; anzi, più libero di molti altri, visto che accade quel che vogliono i cittadini. Sulle cose fondamentali, come i diritti civili, la famiglia, l’immigrazione, abbiamo fatto referendum. Sul resto, decide il Parlamento».

Siete democratici anche in tema di magistratura?
«L’indipendenza della nostra magistratura gode di parametri superiori alla la media dei Paesi europei».

Ma se diffida così tanto dell’Europa, perché non la abbandona?
«Da noi si dice: “Non ho voluto questo cavallo”. Io resto in Europa, perché credo nel sogno e voglio realizzarlo uscendo dall’incubo attuale».

Ma lei lo sa di essere considerato il cattivo d’Europa?
«Sì, questo avviene perché noi ungheresi non riusciamo a stare zitti. Siamo abituati a dire quel che pensiamo senza morderci la lingua e allora lì iniziano i guai».

Inguaiamoci allora, cosa non le piace di questa Europa?
«Vogliamo un’Europa che lavori per la pace e che si opponga all’immigrazione illegale...».

 

 

 

Si dice che sull’immigrazione si sia rotto il legame tra il centrodestra italiano e i Paesi di Visegrad...
«No, perché noi vogliamo che l’Europa, in maniera compatta, si opponga all’immigrazione illegale da dovunque parta e in qualsiasi Stato arrivi. Mi pare che l’Italia, con il suo piano Mattei per l’Africa, voglia opporsi ai clandestini. Vede, l’Europa modifica il linguaggio, edulcora, chiama gli immigrati illegali solo irregolari. Orwell insegna, parli e modifichi la realtà...».

Il governo italiano è ultra-atlantista, come la Polonia...
«Non credo che Roma o Varsavia lavorino per la guerra. L’Europa non è filo-occidentale, l’Europa è Occidente».

Riprendiamo sull’Europa che vuole: zero immigrazione clandestina, zero armi...
«La correggo: noi vogliamo che qualsiasi Paese sia libero di fare la politica migratoria che vuole, indipendentemente dalle indicazioni di Bruxelles. Avrò diritto io di decidere chi accogliere in casa mia. Noi accogliamo poco!».

E non amate i gay...
«Anche questa è una bugia: noi semplicemente ci opponiamo al dominio dell’ideologia gender come modello sociale. Difendiamo la famiglia tradizionale come motore della società. Se non sbaglio lo dice anche la vostra Costituzione».

Stiamo parlando quindi di uno scontro di potere tra Budapest e Bruxelles?
«Credo che l’Europarlamento così com’è dovrebbe essere sciolto per tornare a essere composto da delegati nazionali, come un tempo. La Commissione oggi ha troppo potere, dovrebbe essere soggetta alle decisioni del Consiglio d’Europa, perché è lì che stanno i delegati votati dai cittadini europei».

Perché così fa danni?
«Non rispecchia le volontà degli Stati. Guardi la transizione ecologica. Cercare di limitare gli effetti del cambiamento climatico è giusto, ma la Commissione forza la mano, ne fa una battaglia ideologica e politica, non si preoccupa delle esigenze degli Stati e pretende di imporre norme disarmoniche con i loro modelli economici che faranno solo dei gran danni. E noi sappiamo che la prima nemica del verde è la povertà».

Con queste dichiarazioni lei rischia di essere messo al bando dalla Ue...
«Ci vediamo tra un anno a Bruxelles, con una nuova maggioranza parlamentare».

Sarebbe disposto a sostenere una maggioranza europea di centrodestra?

«In politica si valutano le condizioni: se cambiano...».

Giorgia Meloni sta cercando di cambiare l’Europa partendo da un cambio di maggioranza a Bruxelles: che consiglio le darebbe per non fare la fine di Berlusconi, fatto fuori dall’Europa?

«La politica è un mestiere che ti pesa sull’anima, un continuo corpo a corpo interiore tra dilemmi etici e pratici. Ti costringe a proiettarti nel futuro alla ricerca di soluzioni sempre complesse. Lei governa ancora da troppo poco tempo per capire se sta facendo bene o male e quale sia la sua reale forza ed efficacia. La sua prima responsabilità però è verso l’Italia e gli italiani e la sua politica europea dev’essere consequenziale a questo».

Ma per aver successo in Europa quanto deve mantenersi distante da Orbán?

«Io tifo per lei, visto che la sostenevo anche quando era solo al 4%. Da ungherese, quando divento amico di una persona, tendenzialmente lo resto per sempre. Quando sono stato ospite ad Atreju, nel 2019, mi sono sentito di casa. Ho avuto la percezione di appartenere a una comunità unica, legati da un trasporto che non aveva bisogno di parole per essere percepito e descritto. D’un tratto qualcuno ha intonato “avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest” e io ho risposto “avanti ragazzi di Roma...».

Lei sa che così inguaia il premier italiano, che diranno che vuol fare dell’Italia un’altra Ungheria?

«Queste sono le strumentalizzazioni della sinistra, che tanto trova sempre la stessa scusa per attaccare chi la batte: dice che è autoritario e antidemocratico e incapace. Lo ha fatto con Berlusconi e lo farebbe con la Meloni anche se l’Ungheria non esistesse. Per inciso, noi siamo molto più democratici della Ue: venite a Budapest a vedere». 

 

 

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