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Via della Seta, resa dei Conti con la Cina: addio all'accordo di Conte?

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Andrea Morigi
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«Quanto è diventato faticoso lavorare con gli emissari di Pechino, soprattutto dopo lo svolgimento dell’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese», confidano alcuni imprenditori italiani che da tempo hanno portato i loro interessi commerciali e industriali dietro la Grande Muraglia. Chi può torna indietro, per non finire sotto il dominio diretto dei commissari del popolo. È gia accaduto alla Ferretti, storico produttore di yacht, ma anche di motovedette militari che poi vengono vendute ai Carabinieri, finita da oltre un decennio alla cinese Weichai Holding, che controlla l’86,06% del capitale, mentre a Piero Ferrari e alla sua holding F Investments rimane l’11,14 per cento.

 

 

 

IL GRANDE FRATELLO

Ed è il rischio che sta correndo anche Marco Tronchetti Provera, ormai ex amministratore delegato di Pirelli, che assumerebbe l’incarico di Vice Presidente del gruppo, lasciando l’attuale posizione a Giorgio Bruno. In realtà il governo ha sospeso l’operazione e sta considerando l’opportunità di azionare la leva del golden power visto che, tramite la China National Chemical Corporation, la China National Tire & Rubber Corporation, Ltd. e la CNRC International Limited, che controllano il 37% di Pirelli, la Cina avrebbe chiesto che tutte le unità aziendali del gruppo obbediscano alle «linee guida del ventesimo Congresso in materia di lavoro e talenti professionali, volte ad aumentare il livello di controllo politico e la composizione dei quadri dirigenziali».

I rappresentanti della Cina hanno già esposto le loro ragioni al dipartimento della presidenza del consiglio che sta gestendo il dossier. In pratica, in barba ai patti parasociali appena rinnovati il 23 maggio scorso fino al 31 dicembre del 2025, il vertice dell’azienda di pneumatici e cavi, di cui la Camfin di Tronchetti detiene il 14,1%, si troverebbe a essere occupato da una struttura politica che pretende «l’integrazione dei sistemi informatici delle controllate Pirelli in Cina con i sistemi di Sinochem per consentire la condivisione simultanea delle informazioni».

Un segnale di discontinuità lo aveva lanciato anche il governo Draghi, bloccando nel 2021 la vendita del produttore di semi vegetali Verisem all’azienda cinese Syngenta, poi la cessione del produttore di semiconduttori Lpe (nel Milanese) a Shenzhen Invenland Holdings, impedendo l’acquisizione del ramo italiano della branca hongkonghese della statunitense Applied Materials da parte della compagnia Zhejiang Jingsheng Mechanical. Nel marzo 2022, quindi, era stata annullata la vendita, risalente al 2018, della società di droni militari Alpi Aviation alla società Mars Information Technology, con base a Hong Kong, riconducibile ad aziende di stato cinesi.
È il Grande Fratello comunista, che tenta di comprarsi aziende strategiche in Italia, e di cui Giorgia Meloni si deve assolutamente liberare per far rimanere la Penisola ancorata in Occidente.

Altro che Via della Seta. La Belt and Road Initiative era un percorso «commerciale», affermava ieri in un’intervista Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, ed «è bene che resti tale». Quanto all’ipotesi di rinnovo del memorandum - firmato nel 2019 dall’allora capo del governo Antonio Conte, in coincidenza con le visite di Beppe Grillo all’ambasciatore di Pechino -, Urso ne valuta attentamente la portata e le conseguenze e non gli sfugge che «dobbiamo ridurre il rischio politico di quello che era percepito come un cambio di campo dell’Italia, unico paese del G7 a firmare un accordo strategico».

Lo hanno spiegato a più riprese anche gli americani che conviene cessare la prosecuzione di quell’intesa. E lo ribadiranno anche durante la prossima visita del presidente del Consiglio a Washington DC, a luglio, che la formula per sfuggire alle grinfie di Xi Jinping non implica affatto un salto nel buio come effetto di una presa di distanze dal Dragone, ma è anche sinonimo di vantaggio competitivo, oltre che una garanzia di schieramento dalla parte della democrazia e della libertà. Non basta mica onorare i martiri di Piazza Tienanmen per impedire l’avanzata rossa.

Mentre la Cina minaccia di invadere militarmente Taiwan, fa volteggiare aerei militari sul cielo dell’isola e la circonda con navi da guerra, ripetendo esercitazioni militari sempre più massicce, lo scontro si sposta sul piano della politica industriale e nel campo della tecnologia. Lo hanno capito persino Commissione, Consiglio e Parlamento Ue, che il 18 aprile scorso hanno trovato un accordo per adottare il Chips Act, normativa europea che intende ridurre la dipendenza strategica dell’Europa dai semiconduttori progettati negli Usa e prodotti in Asia orientale, finanziando progetti per le cosiddette “mega-fab”.

 

 

 

LA SFIDA TECNOLOGICA

«In cambio di protezione da parte degli Stati Uniti, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company ha già portato la produzione dei suoi microchip in Arizona e in Giappone, ma non è escluso che possa sbarcare anche in Italia», spiega Antonio Selvatici, docente del Master di Intelligence Economica presso le Università di Firenze e di Roma Tor Vergata. Del resto nemmeno gli Usa si fidano più della Germania, perché la considerano troppo filocinese e filorussa. Inoltre Berlino, oltre alla credibilità politica, ha perso anche competitività sui mercati da quando le sue industrie non pagano più il gas a prezzi inferiori rispetto ai concorrenti italiani. Tant’è che ultimamente il nostro Pil sta crescendo più di quello tedesco. E potrebbe anche raggiungere vette più alte se si attivassero gli investimenti paralleli, magari della statunitense Intel. Ma la priorità e la condizione preliminare è che si molli Pechino.

 

 

 

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