Taiwan, Rodolfo Bastianelli: "Ecco perché la guerra è già scoppiata"
Già professore a contratto di Storia delle Relazioni Internazionali pressol’Università di Macerata, Rodolfo Bastianelli ha lavorato come ricercatore all’Osservatorio Parlamentare sulle Riforme Istituzionali e collabora con varie testate specializzate:Informazioni della Difesa, Rivista Marittima, la Rivista di Politica di Alessandro Campi e la Rivista di Studi Politici Internazionali di Maria Grazia Melchionni. Segue da molti anni il tema di Taiwan, sucuiil suolavoro più recente è una analisi sui rapporti tra Stati Uniti e Taiwan dall’amministrazione Truman all’amministrazione Trump.
Che sta succedendo in questo momento tra Cina e Taiwan?
«Esistono due scuole di pensiero. La prima parte dal fatto che la Cina al suo interno sta attraversando un momento non facile dal punto di vista economico. L’economia è rallentata molto dopo l’esplosione del virus del Covid 19 e delle severe misure di restrizioni che sono state introdotte dal governo cinese. Se noi già pensiamo, per alcuni economisti, che i tassi di crescita cinesi erano sopravvalutati del 2,5-3%, significa che in questi anni la crescita cinese è andata pericolosamente vicina allo zero. Per un Paese che deve offrire milioni di posti di lavoro ai giovani questo può provocare delle tensioni sociali. Allora, in questo clima non facile, è possibile che la Cina utilizzi Taiwan come arma per creare di nuovo intorno al regime una forma di consenso che si è andato affievolendo».
E la seconda ipotesi?
«Parte dalla fase di debolezza che sta attraversando l’Occidente dove non c’è una leadership forte in nessun Pae se. Inoltre la caduta di Kabul, avvenuta due anni fa, in Asia ha rafforzato molto la Russia e la Cina e indebolito indirettamente gli Stati Uniti e i suoi alleati. La Cina si sentirebbe dunque autorizzata ad usare verso Taiwan una linea politica più rigida».
Quest’ultimo era però anche il calcolo che aveva fatto Putin col decidere di attaccare l’Ucraina. Non è che gli sia andata bene...
«Biden ha usato una linea molto rigida nei confronti dell’Ucraina perché intende anche distanziarsi dalla politica che ha eseguito l’amministrazione Trump verso la Russia. Gli Stati Uniti però, se andiamo a vedere, sull’Ucraina non hanno nelle regioni interessate al conflitto degli interessi vitali in gioco. In compenso un’azione di forza cinese vedrebbe inevitabilmente una dura risposta da parte degli Stati Uniti e forse a quel punto un intervento diretto di altri Paesi alleati nella regione come il Giappone e forse anche la Corea del Sud. Non dimentichiamoci che per la prima volta un sondaggio effettuato in Corea del Sud nei mesi scorsi dà della Cina Popolare una percezione molto negativa. Sarebbe uno scenario che per la Cina non rappresenterebbe nulla di buono».
Ma la Cina avrebbe poi la capacità militare per tentare lo sbarco a Taiwan?
«La Cina fino a pochi anni fa aveva un esercito in cui il 70% degli effettivi era composto da forze terrestri, e per giunta con coscrizione obbligatoria. Negli ultimi anni il ministero della Difesa cinese ha cominciato un processo di modernizzazione che ha portato a dare più importanza alle forze navali ed aeronautiche. E non dimentichiamoci che nel 2005 l’Assemblea del Popolo ha approvato una legge per cui una eventuale dichiarazione di indipendenza di Taiwan provocherebbe una immediata azione di forza militare. Ma fino a non molti anni fa c’era uno scenario per cui una eventuale operazione navale militare contro l’isola avrebbe richiesto anche l’ausilio di navi non militari in azione di appoggio. Questo fa capire che una eventuale azione militare anfibia, terrestre e navale contro Taiwan avrebbe comunque delle difficoltà non facili da superare. Senza contare poi che le forze armate taiwanesi hanno buone capacità difensive e un equipaggiamento di buon livello, perché comunque fornito dagli Stati Uniti».
Opzione militare dunque problematica, ma in compenso la Cina ha scatenato una offensiva per togliere di mezzo le residue posizioni che aveva Taiwan in Africa e in America Latina...
«Sì, fino a una quindicina di anni fa Taiwan aveva una serie di importanti relazioni con i Paesi africani. Primo fra tutti il Senegal. Oggi la presenza taiwanese in Africa si è ridotta ad avere relazioni ufficiali solo con lo Swaziland. Gli ultimi a rompere sono stati il Malawi, São Tomé e il Burkina Faso. Questa offensiva cinese offre ai Paesi che rompono con Taipei programmi di sviluppo e di aiuto economico, che però alla fine non è che siano poi così vantaggiosi. Basti vedere il caso dell’Etiopia, che è un Paese che si trova oggi alle prese con una serie di difficoltà economiche e di fatto a essere quasi, se vogliamo, ipotecato dalla Cina, visti i forti debiti che ha contratto. Lo stesso discorso si può fare per l’America Latina. I Paesi centroamericani fino a una quindicina di anni fa avevano nella quasi totalità rapporti diplomatici con Taipei. Nell’ordine hanno rotto prima il Costa Rica, poi Panama, poi l’El Salvador, poi il Nicaragua, e l’ultimo è stato l’Honduras. Al Costa Rica nel 2007 la Cina avrebbe offerto di acquistare una consistente quota del debito pubblico costaricano in un momento in cui il Paese stava attraversando una forte fase di crisi finanziaria. All’Honduras ha offerto vaccini nel momento dell’emergenza Covid. In El Salvador si parla addirittura di una possibile base militare. Ad avere rapporti sono rimasti Guatemala, Belize, Haiti, Paraguay, Saint Vincent e Grenadines, Saint Lucia, Saint Cristopher e Nevis».
Però si iniziano a creare anche risentimenti in alcuni Paesi...
«Esatto. L’ultimo è stato l’autunno scorso, le isole Salomone dove c’erano state delle violente proteste popolari perché molti ritengono che l’influenza cinese nell’arcipelago abbia portato solo dei dati negativi e degli elementi di instabilità. L’Australia si è trovata costretta ad intervenire per garantire l’ordine pubblico e al tempo stesso assicurare una sorta di stabilità regionale. Comunque la popolazione era fortemente contraria all’apertura di relazioni diplomatiche con la Cina popolare».