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"Io giornalista italiano nelle mani dei talebani"

Emanuele Ranucci
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Dopo vent’anni di guerra, la più lunga combattuta dagli Stati Uniti, sono bastati meno di tre mesi ai talebani per riprendersi l’Afghanistan. Oggi, mentre il mondo si interroga su cosa ne è di quel Paese abbandonato da tutti, dal quale continuano ad arrivare notizie incredibili, io, decido di partire per un reportage, supportato da Nove Onlus, una delle poche associazioni umanitarie che lì ancora opera. Raccontare i passaggi amministrativi che precedono il viaggio aiuta a comprendere la situazione caotica del Paese. L’ambasciata afghana in Italia è un palazzo imponente in via Nomentana presidiato dall’esercito. L’ambasciatore dopo il colpo di stato dei talebani ha invitato il governo italiano a non riconoscerli. Insomma un ambasciatore che non ha relazione con il suo Paese. L’ambasciata però ha ancora autorità di emettere il visto, ma a questo bisogna accompagnare una lettera di permesso da richiedere direttamente ai talebani.

 


Si ottiene inviando una mail a [email protected] indicando il motivo del viaggio, la foto del visto (costa 100 euro e anche se non ha valore lo richiedono per fare cassa) e compilando un modulo. Dopo poche ore dall’invio della mail ricevo un messaggio su Instagram. Temor Jayhon, un account fake, con 52 follower e tre post geolocalizzati a Kabul mi scrive in direct chiedendomi se sono mai stato in Afghanistan. Mantengo la bugia già scritta nella richiesta di visto, ovviamente non posso dire al governo talebano che sì, già sono stato ad Herat, con il Ministro della Difesa durante il ritiro delle truppe. Nella richiesta di permesso giornalistico ho scritto che ho un incarico per realizzare un reportage sulle bellezze del Paese. Dopo qualche ora dalla fine della nostra chattata, mi arriva una mail in inglese: posso entrare nel Paese, ma devo andare al Ministero degli Esteri di Kabul a ritirare il mio permesso. Questo fa in modo che, conoscendo il mio volo e sapendo che devo recarmi subito al ministero, conoscano il mio tragitto. Il viaggio inizia domenica, da Fiumicino, via Istanbul. L’ultima tratta è operata dalla Kam Air, compagnia afghana. Dal novembre 2010, tutti i vettori afghani sono stati inseriti nella lista dei soggetti a divieto operativo nell'Ue. Non si contano gli incidenti mortali dovuti ad attentati e guasti. Arrivo a Kabul l’undicesimo giorno di Ramadan, il mese sacro quest’anno è bagnato dal sangue degli attentati dell’Isis.

 

 


L’aeroporto è una roccaforte, in ogni angolo i talebani sono armati fino ai denti, all’uscita si iniziano a vedere i blindati abbandonati dagli americani. Salgo nell’auto del mio autista e percorriamo Massoudh Road. Vengo fermato al primo checkpoint dei reparti speciali, tutta la dotazione è simile a quella degli SWAT. Mi fanno scendere, mi chiedono se so che non posso mangiare e bere perché è Ramadan e mi lasciano andare e inizio a credere che siano un po’ facinorosi ma non pericolosi e anche per questa sensazione continuo a riprendere strade, bandiere del califfato e checkpoint. Le strade sono piene di mendicanti donne, sedute a terra, integralmente coperte, e di bambini che chiedono l’elemosina. I muri sono pieni di scritte che inneggiano al regime, bandiere dei talebani, venditori ambulanti e soldati. Dopo aver parcheggiato la macchina ci dirigiamo a piedi verso il ministero degli Esteri. Ma non ci saremmo mai arrivati.


L’INCUBO
Un talebano ci chiede di mostrargli documenti e telefoni e ci fa cenno di seguirlo. Ci chiede i pin dei telefoni, ci invita strattonandoci ad entrare in un gabbiotto in cemento armato senza finestre, e ci chiude dentro con la porta blindata. Per 2 ore circa non abbiamo nessun contatto con l’esterno, da una fessura riesco a intravedere un gruppo di talebani che guardavano il mio cellulare. Ci aprono finalmente la porta, usciamo e veniamo fatti salire con la forza sui sedili posteriori di un pick-up, nel cassone dietro oltre la mitragliatrice ci sono 4 talebani delle forze speciali. Per impedirci di riconoscere il tragitto ci fanno indossare delle maschere da sci oscurate con vernice nera. Circa 20 minuti di tragitto, tolte le maschere siamo all’ingresso di un palazzo fatiscente con un bellissimo giardino. Scendiamo di un piano sotto terra e si avvera ciò che temevo: ci fanno togliere le scarpe ci spingono dentro una cella, chiudono la porta blindata e poi la grata, senza pronunciare parola.


Un funzionario molto a modo, poco dopo, entra per fare l’inventario di ciò che avevamo nelle tasche, i telefoni già li avevano loro. Addosso ho 4300 dollari e un caricabatterie, lancio la frecciatina sul fatto che può tenerli se ci rilasciano. Mi ignora. Il pavimento della cella è in cemento grezzo coperto da una sottilissima moquette, il bagno senza porta è alla turca e c’è una bacinella per lavarsi riempiendola dal lavandino. Ci sono poi due stanze da circa due metri quadri, noi siamo in cinque. Un ragazzo pakistano sulla trentina, accusato di essere un terrorista, un signore sulla cinquantina di etnia Khasmir che è qui, a suo dire, per business ed un sessantenne molto solitario. Conquisto la loro stima quando rifiuto l’acqua, anche se non sono musulmano, dico al “business man”, unico a parlare in inglese, rispetto il Ramadan quando sono qui. Mi invita a sedermi con loro mentre leggono il Corano, non c’è altro da fare, non c’è possibilità di comunicare con l’esterno, non ci sono ore d’aria, e loro, che sono lì da circa 20 non sanno quando usciranno.

Dopo qualche ora mi consentono di mandare un messaggio su whatsapp a casa, l’unica cosa che avevo richiesto, e torno in cella. Mi metto a dormire e dopo svariate ore vengo svegliato da «Emanuel Emanuel, italian italian» entrano le guardie e dicono a me e Nazir di seguirli. Saliamo 3 rampe di scale, facciamo anticamera in un salone con diversi televisori che mostrano le telecamere delle celle e dell’esterno e su una tv una partita di calcio. L’attesa è finita, andiamo dal capo, seduti a terra nel suo ufficio che è anche la sua camera da letto. Sono tutti armati, lui al centro, quattro talebani davanti a me e Nazir alla mia sinistra. Mi dicono che l’accusa, punibile anche con la pensa di morte, è che io possa essere una spia mandata dagli Usa per comunicare la posizione di obiettivi sensibili, cerco di convincerli, anche esagerando, che sono un turista curioso ed un giornalista sbadato e poco intelligente.


TERZO GRADO
L’interrogatorio dura circa un’ora, mi dice di aver guardato tutte le mie 12mila foto che ho nel cellulare, e tra meme con allusioni sessuali e serate alcoliche varie sento già la ghigliottina sul collo. Non si sofferma troppo sulle foto in Ucraina, come invece avevo immaginato, ma su quelle più personali, chi fosse la bambina nella foto, perché ero andato in India, e mi chiede di elencargli tutti i paesi che ho visitato, volutamente ne salto qualcuno. Il mio tentativo di sembrare scemo va a buon fine. Ci preannuncia che ci libereranno subito, che siamo stati fortunati che ancora non è calato il sole e che quindi sono ancora a lavoro, sennò ne avremmo riparlato la mattina dopo. Chiedo nuovamente se posso sdebitarmi dell’ospitalità con dei soldi, rifiuta categoricamente, gli chiedo allora di poterci fare una foto, cosa che mi concede, forse ignorando che dalla foto fatta con iPhone posso risalire alla posizione esatta e quindi, quella maschera era servita a poco. Ci salutiamo cordialmente, e, nonostante il capo della polizia, mi avesse detto di rimanere a disposizione, decido, su suggerimento dell’Unità di Crisi della Farnesina di prendere il primo volo per Riyad e da lì torno in Italia. Kabul è una fortezza inespugnabile. E gli “studenti del Corano”, non avendo accordi con i Paesi europei, non hanno nulla da perdere nel trattare i nostri cittadini come vogliono. 

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