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Xi Jinping da Putin? Ecco perché il messaggio è rivolto agli Usa

Pietro Senaldi
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Il viaggio di Xi Jinping in Russia è servito a testimoniare al mondo che il rapporto di amicizia tra Pechino e Mosca è saldo, a prescindere dai mandati di arresto internazionale per Putin ordinati dai tribunali occidentali, che peraltro il resto del mondo disconosce, e questo il leader cinese ci ha tenuto a precisarlo quasi letteralmente. Il Cremlino ha fatto sapere di essere interessato alla proposta per la soluzione della crisi ucraina avanzata dal Dragone e su questo punto non è dato sapere se il piano sia imposto da Pechino a Mosca o invece sia concordato.

Quel che è certo è che Xi Jinping, con la sua visita, ha innescato un doppio movimento. Ha rivolto un messaggio a Putin, garantendogli che lo sostiene, ma tenendolo per il collo e lasciando trasparire che lo zar per lui è ormai un interlocutore secondario, un vassallo. Il secondo messaggio è indirizzato direttamente agli Stati Uniti, per dire che la partita vera è a due. Se in apparenza questo semplifica la situazione, in realtà la complica terribilmente, perché più che una proposta di soluzione della crisi, quella di Pechino è una sfida. La Cina si candida ufficialmente come il campione di un’alleanza se non anti-occidentale certamente extra-occidentale, che passa da Mosca e Teheran, include l’Arabia Saudita, che ha appena siglato un accordo con l’Iran senza chiedere il permesso agli Usa, e arriva fino al Brasile di Lula e non più di Bolsonaro. C’è tutto un mondo che si sta ribellando alle nostre regole planetarie dell’economia, dopo che la globalizzazione, con le sue promesse, è fallita e rivendica un nuovo ordine globale, nuovi equilibri. Dalla via della Seta ai contatti di compravendita del gas, ci sono una serie di accordi internazionali che l’Occidente ha fatto saltare a causa della guerra e dei quali il resto del globo sta chiedendo il conto.

È evidente che gli Stati Uniti non possono accogliere la proposta di Pechino, perché significherebbe cedere e rinvigorire l’avversario che gonfia il petto anche per dissimulare debolezze interne di straordinaria gravità per il regime cinese, la cui arma migliore nella sfida globale resta sempre l’assenza di democrazia; il punto è che in questo momento pare anche la sola. L’esito più probabile della tre giorni di visita di Xi Jinping in Russia sarà la prosecuzione del conflitto, anche se Washington sta osservando con orrore il silenzio di Zelensky, che non può permettersi di rovinare i buoni rapporti con il Dragone. Gli Stati Uniti non possono che rilanciare per vedere se quello di Pechino è un bluff, sperando che il regime comunista non possa permettersi ancora a lungo un’instabilità planetaria alla quale sta pagando un grande prezzo economico, che determina difficoltà di tenuta sociale interna.

 



Biden confida nella superiorità militare statunitense, anche se non ha ancora il missile ipersonico di cui la Cina si è dotata, quello talmente veloce da bruciare i radar e che permette di colpire prima che l’avversario abbia il tempo di reagire. Ma soprattutto, la Casa Bianca confida sulla superiorità del suo modello economico. Gli errori delle politiche sociali dirigiste fallimentari cinesi ora stanno facendo sentire i loro effetti, con i pensionati abbandonati perché il regime non si può permettere di curarli, un totale e ingestibile squilibrio tra uomini e donne (4 a 1) e città programmate per venti milioni di abitanti che non riescono a popolarsi. È una guerra di logoramento economico sul risultato della quale nessuno può scommettere e che rischia di spaccare l’Europa. Per mantenere la propria leadership mondiale infatti Washington da dieci anni sta attaccando sul piano commerciale e industriale il gigante tedesco, punito perché sotto la guida della Merkel si era aperto troppo a Est, Russia ma anche Cina, e rischiava di far scivolare troppo a Oriente tutta la politica economica dell’Unione. L’Italia ha scelto da che parte stare, ed è stata la decisione migliore, ma la scommessa è di lungo periodo e tardo incasso, anche perché la lotta è tra le autocrazie e le democrazie e le seconde hanno sempre tempi più bervi delle prime per agire. Da qui anche l’impazienza dell’amministrazione americana, che teme un ritorno di Trump quasi più di una vittoria di Putin. 

 

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