Ucraina, se l'avanzata russa si ferma è il momento di negoziare
A un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, per avere un’idea circa la possibilità di risolvere il conflitto facendo tacere le armi, è indispensabile fare chiarezza su quanto sta accadendo sul campo. Si stanno combattendo in quel teatro tre guerre distinte : la prima è data dallo scontro diretto fra esercito ucraino e forze militari russe, la seconda - anche se stranamente si tende a far finta che non esista - altro non è che la perpetuazione di un conflitto tutto interno al Paese guidato da Zelensky ovvero fra il potere di Kiev e le istanze separatiste del Donbass. Scontro, quest’ultimo, che nel 2014 sembrava essere stato sterilizzato attraverso gli accordi di Minsk, ma poi falliti anche per responsabilità diretta del governo ucraino.
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EQUILIBRIO
Infine, vi è un terzo terreno di scontro, che ci riguarda più da vicino, ed è quello che tramite gli aiuti militari e finanziari vede realizzarsi una “guerra” tutta politica in chiave antirussa guidata dagli Stati Uniti con l’adesione dei Paesi europei. Allo stato delle cose, gli esperti militari occidentali concordano sul fatto che stante le attuali forze nessuna delle parti abbia la benché minima possibilità di prevalere. Non è una cattiva notizia, come di primo acchito possa apparire. Si tratta di un equilibrio che potrebbe facilitare un realistico esercizio di pace, anche perché qualora dovesse configurarsi una totale capitolazione dell’esercito russo Putin non esiterebbe ( è la convinzione dello storico Niall Ferguson espressa in un’intervista a Libero il 17 febbraio scorso) a operare una scelta estrema, ancorché devastante, come l’utilizzo dell’arma nucleare. Vladimir Putin è un crudele dittatore oltre che degno erede del dispotismo comunista e al pari di coloro che lo hanno preceduto nelle stanze del Cremlino - da Lenin a Stalin, da Krusciov a Breznev fino ad Andropov e Cernienko - è fortemente convinto che il compito della Russia sia quello di combattere la civiltà occidentale e la sua democrazia liberale. Ciò premesso non si può non osservare, sulla scorta di numerosi precedenti storici, che i processi di radicalizzazione dei conflitti possono sfuggire, da un momento all’altro, ad ogni controllo razionale e degenerare indipendentemente dalle intenzioni delle diverse leadership. In tal senso, la storia del Novecento dovrebbe funzionare quale contravveleno. Infatti - per aprire solo alcune pagine fra le tante - dalle due Guerre mondiali alla mattanza nei primi anni ’90 nell’area dell’ex Jugoslavia, passando dalla guerra d’indipendenza combattuta in Algeria fra il ’54 e il ’62 fra l’esercito francese e il Fronte di liberazione nazionale- molti sono gli episodi di atroce violenza nati da conflitti fuori controllo. Il sociologo francese Edgar Morin nel suo ultimo libro, Di Guerra in Guerra osserva: «Se l’Occidente ha negoziato con dittatori come Stalin e Mao, perché non farlo anche con Putin?».Va da sé che gli elementi da cui partire per discutere di pace dovrebbero essere incardinati almeno su alcuni punti chiari e pragmatici.
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CONDIZIONI
A tal proposito, Morin non ha dubbi e individua due pre-condizioni per le trattative: «il riconoscimento dell’ind i p e n d e n z a dell’Ucraina o con uno statuto di neutralità o con la sua integrazione nell’Ue, mentre quale contropartita la regione separatista del Donbass potrebbe essere sottoposta a un referendum sotto stretto controllo internazionale oppure andrebbe riconosciuta per ciò che effettivamente è: una regione storicamente russofona». Forse, a distanza di un anno dall’invasione è giunto il momento per l’Occidente di lanciare lo sguardo oltre il perimetro delle armi anche perché all’incrudelirsi di una guerra corrisponde un pericoloso allontanamento della pace. Nell’epoca nucleare dovrebbe essere proibito concedersi tempi lunghi. Scriveva Henry Miller con «l’atomica negli arsenali la possibilità che finisca il mondo non è mai da escludere».