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Svezia, "un enorme giacimento": non saremo schiavi della Cina?

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Daniel Mosseri
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Il cobalto e il titanio si usano per produrre batterie al litio e celle a combustibile, e almeno di nome li conosciamo già. Ma esiste anche l'europio che, come il disprosio, serve per la realizzazione di laser mentre il neodimio serve nella produzione di magneti permanenti a elevata coercitività come anche di più comuni auricolari. Benvenuti nel mondo delle terre rare, 17 elementi chimici (lo scandio, l'ittrio e 15 lantanidi) dei quali una società avanzata non può più fare a meno. Magneti, superconduttori, batterie di ogni sorta, fibre ottiche, turbine eoliche, strumenti medici, apparecchiature militari, radar: l'economia moderna tutta pannelli solari e veicoli ibridi brama questi elementi. Il loro nome è fuorviante: rara non è tanto la loro presenza sotto la crosta terrestre quanto la loro concentrazione. Le terre rare si trovano mescolate ad altri elementi dai quali vanno estratte e separate, ottenendo pochi chilogrammi delle prime da decine di tonnellate dei secondi. Gli Stati Uniti, si legge in un recente rapporto dello U.S. Geological Survey, ne hanno importate per 109 milioni di dollari nel 2020 e per 160 milioni nel 2021. Sempre secondo lo USSG, la Cina è il paese più ricco di terre rare con una disponibilità stimata pari al 40% delle riserve globali. Anche l'Irena, l'Agenzia internazionale per l'energia rinnovabile, attribuisce il primato al Celeste impero, con 140 mila tonnellate dei preziosi elementi prodotte nel 2020.

 

LA CLASSIFICA 
A grande distanza seguono gli Usa (38.000 t), l'Australia (17,000 t) e il Madagascar (8.000 t) mentre un gigante come l'India arranca a 3.000 tonnellate. Insomma, chi vuole correre verso un'economia green-tech deve bussare alla porta della Cina, lei per prima affamata di terre rare. Per l'Ue sembra invece che non ci sia scampo: liberatasi (controvoglia) del giogo del gas russo, appare destinata a dipendere da Pechino per innovare. Poi da Stoccolma la notizia-bomba: la Lkab, compagnia mineraria svedese di proprietà pubblica, ha annunciato di aver «identificato importanti depositi di elementi di terre rare nell'area di Kiruna (la città più settentrionale del regno, a nord del circolo polare artico, ndr). A seguito di un'esplorazione di successo, la società riferisce oggi di risorse minerarie di metalli delle terre rare che superano il milione di tonnellate di ossidi di terre rare e il più grande giacimento conosciuto di questo tipo in Europa». La dirigenza di Lkab, il primo estrattore al mondo di materiali ferrosi, ha festeggiato con compostezza scandinava.


Per Jan Moström, l'ad del gruppo, si tratta di «una buona notizia non solo per Lkab, la regione e il popolo svedese, ma anche per l'Europa e il clima». Ricordando che l'Ue, di cui la Svezia fa parte, ha indicato nel 2035 l'anno in cui daremo addio alle autovetture col motore a scoppio, Moström ha anche osservato che «senza miniere (di terre rare) non ci possono essere veicoli elettrici». Tanto meno in una Europa dove questi elementi diventano sempre più necessari - le stesse istituzioni europee prevedono che il loro uso aumenterà di cinque volte da qua al 2030 - ma da dove non si estraggono. E la questione non è poi solo economicamente ma anche geopolitica visto che, come osserva il manager svedese, «la Cina domina completamente il mercato, un fattore che aumenta la vulnerabilità dell'industria europea».




DIFFICOLTÀ
Tutto risolto, dunque? No perché le terre rare restano laboriose da estrarre per loro stessa natura ma nessuno può contestare il giubilo della ministra svedese dell'Industria, Ebba Busch, che dopo la scoperta ha chiamato il proprio paese «una miniera d'oro». Le nuove terre rare cadono come il cacio sui maccheroni del Critical Raw Materials Act, un documento dello scorso settembre con cui l'Ue, di cui la Svezia ha la presidenza di turno fino al prossimo 30 giugno, si accinge a presentare una proposta di regolamento su «le materie prime critiche» per contribuire «allo sviluppo di catene di approvvigionamento affidabili e solide». Per Möstrom è solo questione di tempo: «Stiamo già investendo e prevediamo che ci vorranno diversi anni per studiare il giacimento e le condizioni per estrarlo in modo redditizio e sostenibile». Forse dieci, forse 15 anni prima che l'impresa vada a regime. Per allora la Svezia dovrebbe anche essere diventato un membro della Nato.  

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