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Qatargate, i regali sospetti dell'Azerbaijan

Renato Farina
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Si chiama «diplomazia del caviale». È la tecnica con cui da almeno 20 anni l'Azerbaijan adesca e tira dalla sua parte giornalisti, funzionari europei, deputati e affini dislocati nei vari consessi internazionali. Ottiene così il silenzio sulla natura autocratica del regime, l'omertà sull'assenza della libertà di stampa e di opinione; al contrario raccoglie elogi sperticati per le scelte illuminate e generose del presidente Ilham Aliyev e della vicepresidente consorte, spesso e volentieri in tuta mimetica. A che scopo questo dispendio di uova di storione? Trasformare la programmata aggressione alla repubblica indipendente del Nagorno Karabakh, popolata di armeni, in una passeggiata trionfale nella totale inerzia dell'opinione pubblica e delle istituzioni occidentali. È andata precisamente in questo modo, quando nel settembre del 2020, per 44 giorni, e poi ancora nel settembre scorso, per meno di una settimana, l'esercito azero, coadiuvato dai turchi e dai mercenari siriani, ha invaso e fatto facile strage di armeni nella certezza di non essere sanzionati da alcuno Stato del mondo.

 

 

Il fascinoso cocktail di caviale e di gas pescati dal Mar Caspio ha intontito la sensibilità umanitaria del pianeta fino a un attimo fa. Il venire alla luce della sfacciata corruzione condotta dal Qatar sta facendo saltare i coperchi dei vasetti di Beluga made in Baku. Hanno cominciato gli svedesi. Per la precisione il sito di controinformazioni e inchieste Blankspot.se. Ha individuato lo strano cambiamento di visione del mondo di due importanti eurodeputati, leader di una commissione decisiva per finanziare "villaggi smart" che sono il vanto ecologico degli azeri. Rasmussen Canback e Sasha Duerkop avevano osservato le mosse in particolare di chi improvvisamente ha ribaltato il proprio giudizio sull'Azerbaijan. Ad esempio. L'eurodeputato tedesco Engin Eroglu (gruppo Renew, i macroniani) si era fatto un nome presentando costantemente risoluzioni critiche nei confronti della dittatura.

 

 

BACIO ALLA PANTOFOLA
Il 14 settembre, all'apertura del Parlamento europeo, Eroglu aveva aspramente dissentito da Ursula von der Leyen per il suo viaggio a Baku dove aveva baciato la pantofola al dittatore Ilham Aliyev. Passa poco tempo, e giura di non aver pronunciato «alcuna parola critica nei confronti dell'Azerbaijan». Due settimane dopo, eccolo in Azerbaijan con una nutrita delegazione. Oltre a lui c'era il parlamentare sloveno Franc Bogovic del Gruppo cristiano democratico. Numerosi collaboratori con aereo pagato, il soggiorno non si sa, i regali non dichiarati. Interviste ai media locali, visite trionfali in città e borghi. Lo scopo principale del viaggio della delegazione era quello di visitare i citati villaggi smart, nella regione di Zangilan: ehi, proprio nelle zone che il regime di Aliyev ha ripreso con la forza dagli armeni del Nagorno-Karabakh nel 2020. Diciamola tutta: il territorio appartiene formalmente all'Azerbaijan. Dunque terra azera a tutti gli effetti? C'è un problema. Si chiama autodeterminazione dei popoli. Gli armeni che abitano lì da secoli e secoli alla caduta dell'Urss presero il controllo dell'area (1992). Dopo 30 anni, e molta diplomazia del caviale, l'Azerbaijan ha abbandonato i negoziati di pace dell'Osce voluti dalle Nazioni Unite. Ha invaso il Nagorno-Karabakh. Una azione che Freedom House ha definito «un'ispirazione per l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia».

 


Torniamo ai due eurodeputati. Che magnifica conversione. Deve esserci stata qualche magia. In febbraio avevano votato la condanna per gli scempi delle vestigia cristiane massicciamente perpetrati a partire dal settembre 2020. Adesso esigono una vigorosa amicizia europea con i vandali. In precedenza ancora gli svedesi avevano dimostrato la potenza delle fake news gestite dal palazzo presidenziale di Baku per dissimulare gli orrori azeri e incolparne con immensi sciami di tweet gli armeni.

 


IL NODO GAS
Bravi gli scandinavi. Per loro non è un problema: non hanno bisogno del gas su cui galleggia l'Azerbaijan. L'Italia invece sì. Sfiorare anche solo con un piumino da borotalco il dittatore Ilham Aliyev rischierebbe di incasinare le forniture di metano di cui abbiamo necessità se si vuol evitare lo stop al riscaldamento delle case e il fermo delle fabbriche. Eppure persino la Grecia, che come noi usufruisce della Tap, ha speso delle parole non per dare addosso a Baku, ma per consentire un gesto umanitario. Almeno questo ci si aspetta dal Quirinale e dal Governo, imitando le parole del Papa che neppure ha citato Stati ed etnie, ma solo il luogo dove sta accadendo qualcosa di atroce. «Sud del Caucaso, corridoio di Lachin». Ci sono 120mila armeni del Nagorno-Karabakh (in armeno Artsakh), di cui 30mila bambini, murati senza rifornimenti di viveri, carburante, medicinali in un piccolo territorio la cui unica via di comunicazione con l'Armenia e il resto del mondo è sbarrata. È il corridoio di Lachin, da 12 giorni bloccato dai militanti di un incredibile movimento ecologista azero, inventato dalla fantasia del regime, con il pretesto di impedire il furto di oro e rame dalla sacra terra azera (in realtà sono i luoghi ancestrali della civiltà armena). Ne avete letto da qualche parte? Forza Giorgia. Come scrisse Solzhenitsyn: «Una parola dolce spezza le ossa», libera i ragazzini.

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