Ucraina, quel silenzio dei pacifisti sui ragazzini torturati e stuprati dai russi
Siamo abituati al chiasso pacifista quando si tratta di denunciare l'orrore delle spese militari, l'affarismo dell'Occidente che specula sui commerci di missili e mezzi blindati: anche quando quei dispositivi si rivolgono contro sistemi non proprio democratici e civilissimi, ma col merito - in prospettiva arcobaleno - di opporsi all'imperialismo dell'Ovest capitalista. Ma quando si tratta di armi meno costose e appariscenti, immeritevoli di quello scandalo, lo strillo pacifista si placa. Come nel fiorire di questi giorni delle testimonianze dei ragazzini ucraini sopravvissuti al lavoro dell'aguzzino invasore: adolescenti stuprati, tenuti per giorni senza acqua né cibo, sottoposti alla roulette russa, torturati con il coltello, con l'elettroschock, appunto gli arnesi semplici adoperati per l'attuazione dell'operazione speciale nel lockdown dei villaggi occupati.
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Uno dei profili ripugnanti di questo pacifismo sta nella proporzione inversa dell'attenzione che esso dedica rispettivamente al peccato bellicista (oltretutto confondendolo con il diritto degli aggrediti di difendersi, e con il dovere altrui di aiutarli) e al crimine dell'aggressore: tante belle manifestazioni contro l'invio di armi; pochine, anzi nessuna, sulle centinaia di migliaia di bambini deportati, e nulla quando a lavorare sulla carne delle vittime sono quelle armi più grossolane, il ferro del pugnale e del filo spinato, il cui uso è più difficile attribuire alle complessità e agli effetti inevitabili della guerra tra superpotenze. Vadano a raccontarle a quei fanciulli, e ai loro genitori, le colpe dell'Occidente.
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