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Iran e barbarie: anche Gesù Cristo oggi sarebbe ucciso a Teheran

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Renato Farina
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Le due immagini ritagliate nella piazza delle impiccagioni - e che ci incatenano lo sguardo - parlano di un fatto di duemila anni fa, che si ripete, si ripete sempre. Stavolta in Iran. Un ragazzo ammazzato con il più vergognoso dei metodi, perché inviso al potere. Potrebbero formare un polittico questa coppia di fotografie. Sono un inconsapevole capolavoro, diffuso in gloria al regime dall'agenzia Mizan, espressione della magistratura della Repubblica islamica. A dispetto delle intenzioni (o forse per un moto di pietà imprevedibile) chi ha scelto quei soggetti e li ha appaiati potrebbe essere un discepolo inconscio di Cimabue, ispiratosi a uno dei suoi tremendi affreschi; viene in mente la Crocifissione di Grünewald che a Colmar in Alsazia ferisce e travolge chiunque apra gli occhi davanti a quella tavola. Il condannato a una morte disonorata, e davanti a lui la madre con le sue sorelle: le tre Marie, le pie donne.

UNA MORTE ORRIBILE
Non morì bene Gesù il Nazareno, 33 anni, un venerdì sotto Pasqua a Gerusalemme; non è morto bene Majidreza Rahnavard, 23 anni, questo lunedì vicini Natale, a Mashhas-Ali (seconda metropoli dopo Teheran, 3 milioni di abitanti, Nord-Est, il cui nome significa: il Santuario di Ali). Majidreza è stato tirato su dal braccio della gru: il gigantesco aggeggio invece di sollevare un pilastro o una lastra di vetro temperato, alza con la corda d'acciaio, lentamente, un uomo. Un gancio lo solleva piano. Bisogna che l'agonia sia spaventosa. E le movenze del morituro indecenti. Questo lo scopo dei Calvari da millenni. Altre volte abbiamo visto queste esecuzioni gestite dall'imam: uomini e donne, vestiti di bianco con le mani legate dietro la schiena, agitano a lungo le gambe, come a farli confessare: non siamo martiri, crepiamo come maiali. Anche quella di Cristo è stata simile nelle convulsioni del petto, nello scuotersi delle ginocchia, nello spasmodico agitarsi del bacino, suscitando beffe del popolo e dei soldati, e il grido della madre, delle sorelle di lei, di Maddalena, del discepolo amato. Alla fine non è stato diffuso il film dell'agonia di Majidreza (per ora). Per pudore, per rispetto? Mano. Neppure per timore di una propaganda negativa, bensì per un progresso calcolato del terrore. Va centellinato quando lo si vuole seminare tra gli 85 milioni di iraniani in patria e all'estero, e conviene ostentare con un crescendo il me-ne-frego musulmano alle diplomazie e all'opinione pubblica dell'Occidente.

SEMINARE IL TERRORE
Il primo impiccato per "guerra a Dio", Mohsen Shekari, era stato ammazzato nel chiuso del carcere. Avevamo scritto che il tiranno Khamenei, dal suo pulpito semi-divino di Qom, non controlla le piazze. Ah sì? Figuriamoci se ci fanno paura questi studentelli e studentelle, coi capelli sciolti che non hanno mai ammazzato nessuno. Il secondo- e i prossimi - lo ammazziamo davanti a sua madre e alle sue pie familiari, avvolte nelle vesti funebri della loro quotidianità di donne che non possono neppure strapparsi i capelli, affondare le unghie nella candida collottola, ingessata nell'armatura di stoffa dalla legislazione religiosa. Anche chi ha protestato con Rahnavard, il 17 novembre scorso, se non è in carcere tra i diciottomila di sicuro starà zitto. Lo filmiamo: se alza il pugno, se una ragazza si leva il velo, li andremo a prendere di notte. Per una volta, una sola, lasceremo in ombra il profilo degli ayatollah. Non si tratta oggi di maledire gli assassini, né di esibire la nostra sacrosanta ma ripetitiva indignazione. I carnefici sono fin troppo orgogliosi di aver strozzato un agnello, per dar loro la soddisfazione che provano i serial killer quando se ne scandaglia la crudeltà. Bisogna inginocchiarsi davanti a Cristo, ai povericristi e alle loro madri. Sono morti male agli occhi dei carnefici e dei superficiali. Ma per chi conosce la storia di quel Crocifisso, l'ultima parola non è come un calcio tirato all'aria ma speranza di resurrezione.

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