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Kiev resiste ai pacifisti coi nostri fucili: ecco come naufraga la morale rossa

Iuri Maria Prado
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Non erano nemmeno cominciate le "operazioni speciali" perla denazificazione dell'Ucraina che il pacifista già estraeva dalla sua cassetta degli attrezzi questo argomento: che non bisognava mandare armi alla resistenza ucraina perché questa in ogni caso non poteva vincere. Era l'obiezione che il pacifista opponeva a chi, già a quel tempo, osservava che tanto distinguere, tanto discernere sulla resistenza ucraina mal si adattava nella Repubblica Bella Ciao, nel Paese della Costituzione più bella del mondo fondata sulla resistenza partigiana. Diceva il pacifista: «Ma che c'entra? Gli ucraini mica possono vincere!».

 

 

I partigiani italiani invece potevano, perché c'erano gli alleati: quindi bene le armi. Gli ucraini no: quindi che li armavamo a fare? Il ragionamento bislacco portava a concludere che se i partigiani si fossero mobilitati prima dello sbarco alleato e avessero chiesto armi, bisognava fargli il gesto dell'ombrello e lasciarli disarmati perché tanto non potevano vincere.

 

 

 

Ma il grave non sta nemmeno nell'inconcludenza logica di quell'obiezione. Sta nel fatto che era pretestuosa, come dimostrano ottanta giorni di resistenza grazie alle armi che, se fosse stato per i pacifisti, non sarebbero arrivate. Almeno l'avessero detta tutta sarebbero stati onesti: non mandiamogli le armi, ché altrimenti c'è caso che vincano. E vedremo come andrà a finire, ma un dato è certo: se la libertà degli ucraini verrà schiacciata, sarà grazie al contributo pacifista; se sopravviverà, sarà non ostante quel contributo.

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