Due date, 11 e 18 settembre 2014, due giovedì che potrebbero cambiare il corso, se non addirittura la storia dell’Unione Europea. Due popoli, quello catalano e quello scozzese, che hanno contribuito a fare la storia del Vecchio Continente e che ora, pur da piccoli rispetto ai colossi, potrebbero scrivere una storia del tutto nuova, quella dell’Europa dei Popoli e non degli Stati e delle burocrazie. Catalogna e Scozia fanno tremare tutte le Cancellerie. E non a caso il segretario leghista Matteo Salvini, aprendo ieri la Festa dei Popoli Padani, ha fatto riferimento proprio al caso scozzese per affermare che se lì vinceranno i separatisti, anche da noi si potrà rilanciare l’indipendenza, arrivando a votare «in Veneto, in Lombardia e anche in Salento». Cominciamo dalla Scozia. Giovedì 18 settembre è il «D day», il giorno in cui poco meno di 5 milioni di scozzesi sono chiamati a votare «sì» o «no» al referendum per l’indipendenza da Londra e, quindi, per l’uscita dal Regno Unito, ponendo fine a una vicenda che risale al 1707 quando in pratica tramontò il Regno di Scozia. Braveheart, l’eroe scozzese William Wallace, friggerà nella tomba in attesa del risultato. La Scozia arriva a questo appuntamento dopo un lungo e difficile negoziato con il governo inglese e vi giunge con un referendum «condiviso»: il voto, infatti, è stato deciso insieme dalle due controparti. Cosa abbia convinto il premier David Cameron a dare disco verde al referendum, se non il riconoscimento del sacrosanto diritto all’autodeterminazione, è un interrogativo che oggi arrovella molti inglesi. Forse allora si pensava che il «no» all’indipendenza avrebbe avuto vita facile. E d’altra parte fino a pochi mesi fai i sondaggi erano netti e davano i contrari alla secessione scozzese avanti di almeno venti punti percentuali. Ma nelle ultime settimane molto è cambiato e le rilevazioni dicono che fra cinque giorni si consumerà un «testa a testa»; e così Londra è andata improvvisamente nel panico. Cameron è arrivato a promettere nuove concessioni di autonomia alla Scozia già a partire da ottobre e dalla City si cerca di spaventare gli scozzesi minacciando il nuovo Stato di non poter utilizzare la sterlina. Ma Alex Salmond, il premier scozzese leader dello Scottish National Party, un pacifico signore che non sembra proprio l’erede di Wallace, ma che non ha mollato di un solo millimetro in questi anni, ha bollato come disperati «tentativi di raggiro» le promesse di Londra. Inoltre alcuni economisti di Edimburgo suggeriscono a Salmond, se l’indipendenza dovesse passare, di rispondere alla minaccia di Cameron con la contro-minaccia di non riconoscere la propria quota di debito pubblico. Inutile negare che, oltre a motivazioni storiche, le ragioni del «sì» all’indipendenza sono sostenute anche da questioni economiche: gli scozzesi favorevoli son convinti di poter trasformare la propria terra in una Nazione florida grazie alla quota-parte del petrolio del Mare del Nord. A BARCELLONA Facciamo ora un volo di circa tremila chilometri e scendiamo in Catalogna, dove un popolo altrettanto fiero della propria storia, delle proprie tradizioni e della propria identità, è convinto che il caso Scozia possa aprire anche a se stesso la strada per la libertà e l’indipendenza. Sono rientrato ieri da Barcellona, dove per una settimana ho assistito ai dibattiti e alla preparazione della Diada, la festa nazionale catalana che ha vissuto il suo culmine alle 17.14 di giovedì 11 settembre quando in città s’è formata una gigantesca «V umana» con undici chilometri di due delle vie più grandi della capitale catalana, la Diagonal e la Gran Via strapiene di gente. La polizia locale (non gli organizzatori, si badi bene) ha parlato di almeno un milione e 800 mila persone per strada, se non addirittura 2 milioni. I media locali hanno inneggiato alla più grande manifestazione di popolo mai avvenuta in Europa. Qualche ora più tardi il governo di Madrid, messo alle strette da un tale successo, ha fatto filtrare la notizia che in realtà i partecipanti sarebbero stati «solo» mezzo milione, maldestro tentativo di parare il colpo. RAJOY INCOMBE In Catalogna, oggi come oggi, stanno un bel passo indietro rispetto alla Scozia, perché il governo locale che guida la Generalitat (più o meno equivalente alla nostra Regione) ha varato un decreto che prevede per il 9 novembre prossimo il referendum per l’indipendenza, ma il governo centrale di Madrid nega la possibilità di andare al voto, in quanto la divisione dello Stato non è prevista dalla Costituzione (come in Italia). Giovedì 18 un gruppo di parlamentari catalani (dallo scorso anno, e per la prima volta nella sua storia, nel Parlament de Catalunya i partiti indipendentisti sono maggioranza assoluta) sarà a Edimburgo per assistere alla consultazione scozzese, per rientrare il giorno successivo quando l’assemblea dovrà ratificare il decreto del governo locale. Poi il presidente della Generalitat, Artur Mas potrà emanare il provvedimento di convocazione delle urne. A quel punto si attenderanno le contromosse di Madrid e del premier, il popolare Mariano Rajoy, finora deciso fermare il referendum impugnandolo davanti al Tribunal costitucional. Mas si augura che la grande prova di polo della «V della Diada» unita al caso scozzese («se la Scozia vota per l’indipendenza non si capisce perché non lo possa fare la Catalogna» ha detto davanti ai giornalisti stranieri) induca Madrid a sedersi al tavolo del negoziato per consentire un voto invocato dall’80% dei catalani, che vogliono decidere del proprio futuro. Che poi, una volta ottenuto il referendum, vinca il «sì» all’indipendenza è più difficile da affermare anche se molto probabile. Nell’ultima intervista concessa Artur Mas ha affermato: «Voteremo di sicuro. Altra cosa è però dire in che condizioni voteremo. È un qualcosa che non dipende solo da noi». In queste parole c’è la sua convinzione che il referendum possa anche scivolare in una data successiva al 9 novembre, se questo dovesse servire a indurre Madrid a scendere a più miti consigli. Le altre forze indipendentiste catalane, invece, hanno ormai fatto del 9-N una bandiera non più ammainabile e la maggiore di esse, Esquerra Repubblicana, è arrivata a lanciare la «disobbedienza civile», cioè l’idea di convocare il referendum anche se il Tribunal costitucional dovesse sospenderlo. Insomma, l’eterno braccio di ferro fra Barcellona e Madrid è quantomai in atto. di Gianluca Marchi *direttore di www.miglioverde.eu