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L'editoriale

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di Vittorio Feltri

Andrea Tempestini
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Aiutatemi a capire, cari lettori. Come mai in Italia più le cose vanno male e più si festeggia? Ogni pretesto è buono per scendere in piazza in corteo (variante laica della processione), gridare, fischiare e applaudire (anche ai funerali). Il Paese non è mai stato lacerato da polemiche e divisioni come in questo periodo; non si rispettano i codici, tantomeno quello della strada, però si osserva il calendario con scrupolo religioso. Il nostro dio è la data, davanti alla quale scattiamo sugli attenti, pronti a celebrare qualsiasi ricorrenza, in particolare se priva di vero significato. Non mi riferisco né a patroni né a santi, bensì ai fanti su cui siamo autorizzati, anche dal proverbio, a scherzare. Ieri, 2 giugno, si è onorata in pompa magna, come da consuetudine, la nascita e il perdurare della Repubblica che ha compiuto, se non erro, sessantacinque anni. Siccome non bastava il genetliaco  della suddetta Repubblica, notoriamente sorta dalle ceneri di una monarchia ammazzata nelle urne mediante brogli (tanto per ben cominciare), si è abbinato il 150° compleanno della Patria unita, così la festa è diventata biturbo, raddoppiando clamori e fragori. Non mi sono recato a Roma per partecipare né per assistere al tripudio popolare, però mi è venuta in soccorso la tivù che ha dispensato immagini in abbondanza della fastosa commemorazione. E confesso di essere stato percorso da un brivido. Commozione? No. Sconforto. Perché ho costatato che la sinistra, la stessa che si vergogna di essere stata comunista, e guai a rammentarglielo, si è impadronita anche del 2 giugno e dell'unità nazionale. Infatti nella Città eterna dominava non il tricolore, ma il rosso vermiglio delle bandiere simbolo della fallita Utopia e trasformata in generico progressismo. Sono morte le ideologie, ma i fantaccini ideologizzati non lo sanno e sono ancora lì con vecchi arnesi a perpetuare i riti delle manifestazioni d'antan. I compagni hanno fatto un tuffo nel passato pensando al presente che appare loro radioso, specialmente dopo l'ultimo successino amministrativo. Pisapia e De Magistris sono i profeti dell'orda porporina che intravede la possibilità di riscossa sull'odiato Cavaliere, e si inebria alla sola ipotesi di schiacciarlo, come un pidocchio. C'è qualcosa di disgustoso su certi volti intontiti dall'estati da vittoria elettorale, un'espressione che tradisce la voglia di rivalsa, se non di vendetta. Spero di sbagliare. Ma se la sinistra, per sfogare la frustrazione accumulata in anni e anni di sbandamenti, coglie anche l'occasione di ricorrenze sbiadite, c'è da preoccuparsi. Ormai si è accaparrata tutto il calendario. Il 25 aprile è roba sua da sempre e guai se qualche eretico si intrufola nelle celebrazioni. Idem il 1° maggio. Se i lavoratori non sono della Cgil non hanno neppure il diritto di chiamarsi lavoratori, banditi dalle sfilate per indegnità. E se tutto questo preluda o no a una nuova stagione di conformismo è presto per dire. Ma non è affatto presto per raccomandare al centrodestra di non perdersi in questioni di lana caprina. Serve reagire per arginare il fiume rosso che minaccia di riportarci a epoche che malamente abbiamo vissuto.

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