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Magistratura e politica sono i malati più gravi

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Non può essere un giudice a stabilire la validità di una cura. Ma il ministero, invece di tutelare i malati, si è piegato all'opinione pubblica e alle disposizioni dei tribunali

Giulio Bucchi
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Per esperienza diretta so che quando si ha un malato grave in casa si è pronti a qualsiasi cosa pur di vederlo guarito. Purtroppo, sempre per esperienza diretta, so però che c'è anche chi è pronto a qualsiasi cosa pur di approfittare del bisogno di speranza di chi ha un malato grave in casa. Non mi stupisce dunque il caso Stamina. Anzi, dirò che mi sembra l'epilogo naturale di una vicenda in cui non solo c'è la disperazione delle persone colpite da un male incurabile, ma c'è l'incapacità della politica di essere autorevole e credibile agli occhi dell'opinione pubblica e l'arroganza della magistratura che si ritiene autorizzata a occuparsi d'ogni cosa e, soprattutto, infallibile. Nel caso Stamina, a un laureato in Lettere e Filosofia che si trasforma in un luminare capace di curare la Sclerosi laterale amniotrofica fa da contraltare un ministero (non scrivo ministro perché le responsabilità risalgono a ben prima dell'insediamento di Beatrice Lorenzin) che non riesce a fissare regole condivise, le quali aiutino a capire che cos'è una cura e che cos'è una truffa. Ma ci sono anche giudici che credono, nel nome della legge, di potersi sostituire a medici e scienziati, imponendo agli ospedali pubblici di somministrare l'infusione di fiale che non si sa neppure che cosa contengano. Ciò che ha pubblicato ieri La Stampa, frutto delle ispezioni dei Nas e delle indagini della Procura di Torino (per fortuna non tutta la magistratura si comporta allo stesso modo),  dimostra come in tanti, consapevolmente o meno, abbiano giocato sulla pelle dei malati. Secondo le cartelle esaminate dagli esperti, all'ospedale di Brescia nessun paziente sottoposto al metodo Vannoni  avrebbe avuto miglioramenti riscontrati clinicamente. Anzi, forse ci sarebbe stato un decesso sospetto. In tutto sarebbero 36 i malati sottoposti al trattamento, ma  molti di più quelli cui i dirigenti della società proprietaria del metodo avrebbero chiesto soldi per accedere alla cura. Secondo le indagini della Procura i pazienti che avrebbero pagato sarebbero 62, ai quali sarebbero stati richiesti anche 40 mila euro. Una montagna di soldi che alcuni avrebbero racimolato anche indebitandosi, ma che non sarebbe in alcun modo giustificata, soprattutto se sarà confermata l'esistenza di una mail in cui una delle biologhe alla guida del laboratorio di Stamina ammette di non sapere se quelle iniettate ai pazienti siano o meno cellule staminali e in particolare se siano sterilizzate o filtrate. Insomma, nella cura non si sa cosa c'è e se sia sicura e non metta a rischio la salute dei malati per effetto della contaminazione di batteri.  Eppure tutto ciò è finito per essere somministrato in un ospedale pubblico, quello della civilissima e avanzatissima Brescia. Una cura che forse non è una cura. Un farmaco che non è detto sia un farmaco o un'altra cosa. Un laboratorio guidato da un professore di Lettere e Filosofia che prima di occuparsi di cellule staminali e Sla si manteneva facendo ricerche di mercato. Ecco, il dramma  di un Paese, del suo servizio sanitario, della politica, della magistratura è racchiuso in questi elementi.  A persone malate in cerca di speranza si è offerto nelle corsie di un ospedale sottoposto alle regole dello Stato e della Regione di essere curate con qualcosa che non si sa che cosa sia. Eppure al ministero già un anno fa sapevano che il metodo Vannoni non funzionava. Anzi, del suo promotore pensavano che fosse un ciarlatano. Ciò nonostante, ai primi ricorsi dei pazienti, alle prime sentenze della magistratura che imponeva di somministrare la «cura», non si sono opposti.  Certo, è difficile andare contro l'opinione pubblica o per lo meno l'opinione dei parenti  di malati in cerca di speranza. Forse è addirittura pericoloso opporsi a una sentenza  del tribunale che impone l'infusione del «farmaco». E però questo è ciò che si richiede a un ministero, il quale ha l'obbligo di tutelare la salute degli italiani. Al contrario si è preferita  la convenienza, piegandosi  alle richieste della gente e alle disposizioni dei giudici. Non è la prima volta che tutto ciò accade. Nel passato abbiamo visto ogni genere di guaritori e anche recentemente, per il cancro o altro, si segnalano metodi che si diffondono con il passa parola, fra pazienti e parenti di pazienti che credono di aver trovato la salvezza.  Uno Stato  che abbia la dignità di chiamarsi tale (ma anche una politica e una magistratura) non può però consentire che tutto ciò accada e, soprattutto, che qualcuno si indebiti per  inseguire una speranza che non c'è.  Il ministro svolga il compito per  cui è stato nominato garantendo davvero il diritto alla salute e non il diritto a inseguire chiunque prometta  la salute. E i giudici tornino a occuparsi di far applicare la legge senza pensare di potersi sostituire a medici e scienziati. Ne guadagneremo tutti.   di Maurizio Belpietro Twitter: @BelpietroTweet  

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