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Monti punta ai voti di Silvio ma lo vuole in panchina

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Per restare a Palazzo Chigi il premier guarda da tempo al Pdl. Ma Mario sa che solo senza leader forti può continuare a dettar legge

Giulio Bucchi
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di Maurizio Belpietro «Che cosa fa Monti?». Da quando Silvio Berlusconi lo ha invitato a candidarsi alla guida dei moderati, non passa giorno che qualcuno non mi fermi per strada e mi domandi se il presidente del Consiglio ha intenzione di scendere in campo con una lista propria oppure di concedere il nome a qualche partito già esistente. La risposta è semplice: il professore muore dalla voglia di buttarsi nell'agone della campagna elettorale e di farsi eleggere a furor di popolo alla guida del governo. Se non ci fossero alcuni piccoli problemi tecnici da risolvere,   ad esempio il fatto che essendo lui già senatore a vita non ha bisogno di essere votato perché in Parlamento già ci sta, e tipo il leggero, ma puntuto, fastidio manifestato dal capo dello Stato per un premier tecnico che fa campagna elettorale,  Monti avrebbe già rotto gli indugi, annunciando ai poteri deboli (quelli forti già sanno tutto) che il prossimo presidente del Consiglio sarà ancora lui. Già, perché sull'esito della competizione elettorale di primavera (o di fine inverno se, come pare, andremo a votare tra il 17 e il 24 febbraio) non ci sono dubbi. Nel caso il presidente  del Consiglio si candidasse alla guida di una coalizione composta da Udc, Italia Futura (i montezemoliani) e Pdl, la partita sarebbe chiusa. Nonostante le velleità di Pier Luigi Bersani, il quale, dopo le primarie, si è sentito la vittoria in tasca (e con lui D'Alema,  che infatti l'altro ieri sul Corriere ha manifestato tutto il suo disappunto all'ipotesi di un bis del Professore), con Monti in campo la sinistra non avrebbe alcuna possibilità di farcela. Il Pd resterebbe a becco asciutto come successe al Pds di Achille Occhetto, confinato all'opposizione dopo aver contribuito alla nascita di un governo tecnico. A pensarci bene, nel 1993, quando Carlo Azeglio Ciampi, il primo non parlamentare chiamato a guidare un esecutivo senza disporre di una propria maggioranza, i post comunisti erano certi di farcela. Sicuri che, dopo la parentesi tecnica, sarebbe toccato a loro. E invece, come è noto, arrivò Berlusconi e la storia cambiò. Anche stavolta la storia potrebbe prendere una strada diversa da quella immaginata dal segretario del Partito democratico e dal suo alleato Nichi Vendola. Nonostante i sondaggi li accreditino del 40 per cento e più, non è detto che alla fine i compagni siano  premiati. Un po'  perché  alla conta manca quasi la metà degli elettori, che interpellata dai sondaggisti dichiara di non sapere se e per chi andrà a votare. E poi, mentre è chiaro da chi sarà composto lo schieramento di sinistra, le idee su ciò che starà a destra e su quanti saranno i soggetti che si contenderanno i voti moderati sono un po' più confuse.  Nell'area centrista, tra Pier Ferdinando Casini, Montezemolo, Olivero (Acli) e Riccardi (ministro ed esponente della Comunità di Sant'Egidio) c'è un gran agitarsi, ma i voti restano scarsi. Le rilevazioni, che includono l'ormai insignificante partito di Gianfranco Fini, li danno tra il dieci e il quindici per cento, ma è più probabile che i consensi veri si avvicinino alla parte bassa della forchetta. La Lega sta tra il quattro e il cinque per cento e sogna di potersi apparentare con il Popolo della Libertà, ma senza Berlusconi e con il solo Alfano, così da riuscire a conquistare la Lombardia. Grillo con il suo Movimento Cinque Stelle viene dato al 16 per cento, ma in molti lo giudicano in discesa, soprattutto dopo le polemiche con i dissidenti e le espulsioni di alcuni consiglieri riottosi che non si piegavano ai suoi diktat. Su tutto questo mondo di voti centristi, destrorsi e arrabbiati resta però sospesa una grande incognita, che non riguarda ciò che farà il presidente del Consiglio, ma chi lo ha preceduto. Berlusconi è passato in breve dalle intenzioni di rottamare Mario Monti all'idea di candidarlo di nuovo premier, ma non più alla guida di una grossa coalizione, bensì del centrodestra. Capito che non c'è speranza di aggregare Casini e compari se lui rimane in campo, il Cavaliere, pur di evitare una sconfitta bruciante, è disposto a un passo indietro e dunque anche a digerire il Professore come prossimo premier. Ma forse questo non basta, perché Monti ha altre idee in testa che persegue da mesi con tanta determinazione e altrettanta finta modestia. Chi lo conosce sa che l'ex rettore, pur continuando a dire di volersene andare e pur negando l'intenzione di ricandidarsi per Palazzo Chigi, non ha mai avuto alcuna intenzione di far le valigie. Né lo solletica l'idea di traslocare al Quirinale lasciando il posto a una combriccola di ex comunisti, alcuni dei quali neppure pentiti. Monti vuole il governo e per non mollare da tempo guarda al Pdl. Il problema è che vuole i voti del Popolo della Libertà ma non i suoi esponenti, a cominciare da Berlusconi. Il Cavaliere, La Russa, Gasparri, la Santanchè e gran parte dei deputati e senatori del partito dovrebbero farsi da parte, così da incoronare senza discussioni il presidente del Consiglio come futuro leader di tutta l'area moderata. L'ex rettore, ambizioso com'è, preferisce non essere il candidato del Pdl né dell'Italia Futura o dell'Udc, ma l'uomo di tutti. Con tanti partiti e tanti capetti, nessuno però in grado di prevalere sull'altro, lui regnerebbe su tutti. Con quel che ne consegue. Perché, se non cambia politica economica, per gli italiani saranno dolori.  

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