Il problema non è la Fiat
Tutti piangono per i cassintegrati dell'auto, ma il vero dramma del Paese sono gli 800 mila disoccupati creati da Monti. Marchionne scappa perché con tasse e benzina da record qui nessuno compra più nulla
L'Italia è davvero un Paese bizzarro: nell'ultimo anno si sono persi quasi 800 mila posti di lavoro, ma invece di parlare di questo da noi si discute dei cassaintegrati Fiat, i quali il lavoro non lo hanno perso, ma ricevono un regolare stipendio, anche se non pieno, per restare a casa. Il ministro Fornero, preso atto dell'incredibile fatto, ha dichiarato di essere in attesa di una telefonata dell'amministratore delegato della Fiat, Marchionne. Sì, avete letto bene. La responsabile del Welfare aspetta che l'uomo in pullover la chiami per spiegarle che cosa sta succedendo e rassicurarla sul futuro di migliaia di dipendenti. La professoressa probabilmente non sa che, invece di attendere la chiamata, potrebbe essere lei stessa a farne una. Ma forse questo spiega perché ad oggi non abbia chiamato nessuno per affrontare il problema degli 800 mila nuovi disoccupati: è in attesa di qualcuno che le telefoni. La stranezza più sorprendente riguarda però il dibattito che si è aperto sul futuro dell'azienda. La Fiat è al di sotto degli obiettivi che si era data in Italia un paio di anni fa. Invece di produrre un milione di macchine l'anno, dai suoi stabilimenti ne escono molte meno, ergo, sostengono i critici, il progetto Fabbrica Italia voluto da Marchionne è una sòla, perché non va. Ovvio che non vada: con la crisi, in Europa il mercato dell'auto è crollato dappertutto e se si vendono meno veicoli è naturale che se ne producano anche di meno: non a caso Renault e Opel hanno intenzione di chiudere due dei loro stabilimenti. Obiettano i fautori del dibattito sul futuro del gruppo torinese: ma Fiat ha perso più quote di mercato di altri. Già, ma in un Paese che ha la benzina più cara d'Europa e dove in meno di un anno 800 mila persone perdono il lavoro, è difficile trovare gente che si faccia la macchina nuova. Soprattutto se si costruiscono auto di media e bassa cilindrata, vetture ideali per redditi minimi, tra i cui potenziali acquirenti, prima di perdere il lavoro, c'erano proprio quegli 800 mila neo disoccupati. Non è finita: insieme al dibattito sul futuro della Fiat è rispuntata anche l'altra grande discussione, quella eterna, che ritorna come un fiume carsico ad ogni soffio di crisi. Riguarda i soldi pubblici di cui il gruppo torinese ha goduto per anni, quando si diceva che ciò che andava bene alla Fiat andava bene al Paese. Politici e commentatori accusano l'azienda di ingratitudine e rimproverano a Marchionne di non sentire l'obbligo morale di restituire all'Italia ciò che l'Italia ha dato nel corso degli anni. Polemica oziosa. Se il manager canadese restituisse il denaro che l'azienda ha preso nel passato non farebbe l'amministratore delegato di un gruppo multinazionale ma l'assistente sociale della Caritas. E siccome noi abbiamo bisogno di aziende e non della San Vincenzo, sarà bene che continui a fare quello che fa. Non si può chiedere a un dirigente di far funzionare un'impresa e al tempo stesso di fare del bene: le due cose non sono quasi mai compatibili. Marchionne fa il Marchionne, ovvero cerca di correre con una macchina che non è facile tenere in strada. Quando si mise al volante, a metà degli anni Novanta, la Fiat era sull'orlo del baratro. Nessuno però si alzò per dire agli Agnelli: restituiteci i soldi che vi abbiamo dato, visto che li avete spesi male. No. Tutti si prodigarono a chiedere il salvataggio dell'azienda, disposti se del caso anche a mettere altro denaro. Il gruppo per fortuna ha fatto da solo, prendendo soldi ma non da noi. È l'America che ha rifinanziato la riconversione della Chrysler, credendo in un progetto che in Italia veniva giudicato un azzardo e ora negli Usa la Fiat viaggia e macina utili. Il gruppo torinese, dopo anni di assistenzialismo e protezionismo da parte dello Stato italiano, si sta finalmente confrontando con il mercato globale e purtroppo i risultati sono disastrosi, ma non per i conti della società: per noi, per l'Italia. Negli Stati Uniti l'azienda cresce. In Brasile le cose vanno a gonfie vele, sia per la produzione di veicoli (più 60 per cento rispetto all'Italia), sia per il mercato (4 milioni di auto contro il milione del nostro Paese). Persino in Polonia non c'è di che lamentarsi (stesso numero di vetture prodotte rispetto a quelle che escono dagli stabilimenti italiani, ma da un solo impianto e con un quarto dei dipendenti impiegati da noi). Se si guardano i dati senza essere provvisti del paraocchi si capisce dunque con una certa facilità che Marchionne non è un venditore di tappeti così come qualcuno lo dipinge. Probabilmente non è neanche il mago che la sinistra descrisse anni fa quando cercò di farlo suo. Molto più semplicemente, il manager italo-canadese è un signore che lavora in un settore difficile e in un Paese ancora più difficile. Non so se mi sono spiegato. Marchionne fa marciare le sue fabbriche là dove gli conviene e là dove la gente compra le macchine. Il problema dunque non è la Fiat, il problema è l'Italia. È il nostro Paese che non va. La sua economia, le sue regole, il suo governo. Non esiste un caso Fiat. Esiste un caso Italia. I diecimila cassaintegrati del gruppo di Torino sono niente difronte agli 800 mila disoccupati registrati in pochi mesi. Basta dunque parlare di auto e dei problemi di casa Agnelli. Cominciamo a parlare dei problemi che si incontrano a casa degli italiani. Se desidera che glielo spieghi, io chiamo anche oggi il ministro Fornero. Si sa, a volte una telefonata ti allunga la vita. A me basterebbe che accorciasse i tempi di reazione di questo governo. di Maurizio Belpietro