Centinaia di miliardi. Il mercato europeo degli armamenti dai cacciabombardieri agli elicotteri, dalle fregate ai droni movimenta ogni anno affari (e un importante interscambio) crescente. Secondo i dati del Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), l’istituto di ricerca svedese che monitorizza questo segmento, negli ultimi anni balza all’occhio una decisa crescita. Ad esempio il budget militare della Francia- Paese con cui le aziende italiane del settore hanno profondi rapporti di collaborazione - ha raggiunto nel 2023 i 69 miliardi di euro. La Germania ha messo a bilancio la bellezza di 58 miliardi di euro sull’onda della crisi orientale scoppiata in Ucraina nel 2022.
Anche l’Italia ha fatto lievitare l’impegno finanziario dedicando al settore 28 miliardi di euro alla difesa. Il Regno Unito - legato a profondi rapporti di collaborazione sia con gli Stati europei che con le aziende americane - ha tenuto il passo e messo sul piatto 60 miliardi. L’istituto di ricerca svedese - prima ancora dell’insediamento di Donald Trump, della richiesta di maggior contributo alle casse Nato, sull’onda del conflitto mediorientale - già stimava che entro il 2025 la spesa complessiva europea avrebbe raggiunto i 400 miliardi di euro. L’obiettivo prudenziale Nato di portare il contributo dei Paesi del Patto Atlantico al 2% del Pil nazionale appare ormai più che superato.
Ucraina, il generale Li Gobbi: "Alla forza di pace servono le truppe. L'Europa non le ha"
Le confuse idee su un possibile spiegamento di militari europei in Ucraina a vigilare su una tregua sollevano perplessit...Paesi come Polonia e Grecia dedicano rispettivamente circa il 4% e il 3,8% degli stanziamenti. L’Italia ha sviluppato negli ultimi decenni un comparto difesa aerospaziale di tutto rispetto: esportiamo sistemi di difesa e componenti ad alta tecnologia, grazie a Leonardo (ex Finmeccanica), uno dei colossi mondiali del comparto difesa e aeronautico. Poi c’è la componente navale (Fincantieri) e terrestre (Iveco) con vendite annuali per circa 13 miliardi di euro, di cui ben il 70% all’estero. Con una crescita del 43% nelle esportazioni di armamenti negli ultimi anni, l’Italia si rivolge a mercati Nato, ma anche a Paesi come Qatar e Kuwait con ordini da 5 miliardi di euro. Ma ancora non basta. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, come i vertici delle nostre forze armate, da tempo ammoniscono: servono più fondi e investimenti in mezzi sì ma anche in uomini.
Perché se è vero che le industrie del comparo difesa stanno lavorando a pieno regime, e godono di un blasone mondiale, il problema resta potenziare gli organici delle nostre forze armate. Da tempo Crosetto si sgola. Da quando era Capo di Stato Maggiore, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, lo ripete come un mantra: «Servono almeno 10mila uomini in più». Come se non bastasse l’ammiraglio Dragone dal 17 gennaio scorso ha assunto ufficialmente l’incarico di presidente del Comitato militare della Nato. Vale a dire la massima autorità militare dell’Organizzazione e la principale fonte di consulenza per il Consiglio Nord Atlantico e il Gruppo di pianificazione Nucleare.
Ma per arruolare 10mila uomini non basta fare un concorso. Servono anche nuove specialità da innestare rapidamente negli organici delle forze armate. Non più tardi del novembre scorso Crosetto lo ha spiegato chiaramente in audizione parlamentare: «Serve ringiovanire le forze armate favorendo il ricambio generazionale». Mettendo in piedi «una riserva operativa come strumento di reclutamento in caso di crisi ed occorre incrementare le dotazioni organiche delle forze armate per garantire la piena funzionalità dello strumento militare, superando» i tagli della legge 2012.
Come Israele, Austria, Svizzera e pure gli Stati Uniti adesso anche i Paesi europei si sono resi conto di aver immolato- sull’altare delle politiche di bilancio da far quadrare - la garanzia di dotarsi di una forza di intervento adeguata. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha dato il via a un vivace dibattito sul sistema di reclutamento attualmente in vigore nel continente europeo. Numerosi Paesi, infatti, si interpellano se questi sistemi di reclutamento siano adeguati a soddisfare le nuove esigenze delle forze armate nell’odierno contesto internazionale. È così emersa la necessità di procedere con un rapido aumento degli organici e di «perseguire l’obiettivo di un incremento del numero di unità sotto le armi».
Se la Germania ha scelto di passare dalle attuali 180.000 unità a più di 203.000 unità entro il 2031, la Francia ha stabilito che aumenterà il numero di riservisti sotto le armi dagli attuali 40.000 a oltre 100.000 entro il 2035. La Polonia, dal canto suo, ha avviato un massiccio programma di incremento della spesa che dovrebbe portarla a raggiungere l’impressionante numero di 300.000 militari in servizio attivo di qui al 2033. L’intenzione è attivare una riserva «costituita da personale proveniente dal mondo civile e con una pregressa esperienza militare, che potrebbe essere impiegato in tempo di guerra o in crisi internazionale» in caso di «stato di emergenza deliberato dal governo».