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Per rilanciare l'Italia serve un progetto di politica industriale

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Bruno Villois
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Il sistema Confindustriale che rappresenta oltre 150mila imprese che danno occupazione a 5,4 milioni di occupati, pari a 1/4 del totale dei lavoratori delle aziende private, deve riuscire a proporre al governo Meloni un progetto Italia che posizioni al centro l’industrializzazione e freni sia le delocalizzazioni da parte di imprese a capitale estero, sia le cessioni della maggioranza di capitale di medie-grandi imprese italiane. Da inizio millennio alla guida del nostro Paese si sono susseguite maggioranze variegate, solo il primo governo Berlusconi 2001-2006 aveva abbozzato un progetto di politica industriale, in cui il capitale italiano doveva primeggiare pure nei grandi gruppi.

Il tentativo dei capitani coraggiosi per salvare Alitalia andava in quella direzione, purtroppo evaporò anche a causa delle crisi sistemica proveniente dagli Usa che, tra l’altro, mandò a gambe all’aria, per diversi anni, l’intero sistema economico, determinando le condizioni per la nascita di un Governo tecnico che, nonostante la sua matrice e l’autorevolezza di molti suoi componenti, non riuscì a far partire una politica industriale degna di quel nome. Da allora alla guida di Confindustria sono transitati ben 5 vertici - compreso l’attuale appena insediato - e nessuno di loro è riuscito a riposizionare l’Italia verso una politica industriale a capo della quale ci fosse capitale italiano. Dall’auto alla moda, dal bianco all’elettronica da consumo, ormai si fa sempre più fatica a reggere l’urto di gruppi esteri che lasciano le filiere nostrane a favore di estere o parimenti quelle di aziende ancora a capitale italiano che trasferiscono in Paesi fiscalmente accondiscendenti le loro sedi legali per pagare meno tasse. Va ripensato un modus operandi e vivendi che limiti la de-industrializzazione in corso grazie al coinvolgimento di un capitalismo nostrano che voglia primeggiare. Basta dare un’occhiata alle maggiori imprese quotate a Piazza Affari per comprendere l’urgenza di stimolare il capitalismo italiano a mantenere posizioni o tornare ad averne.

 

 

Nel Ftse Mib sono ben 16 quelle bancarie e assicurative e solo 12 quelle industriali, di cui solo 6 sono a capitale italiano, con sede entro il confine, e non sono certo le maggiori per capitalizzazione. Vero che Ferrari è ad alta capitalizzazione e produce e dà lavoro a un’importante filiera quasi totalmente italiana, ma il suo socio di maggioranza- la famiglia Agnelli attraverso Exor - ha sede in Olanda. Eppure ci sono fior fiore di imprese dotate di adeguata capitalizzazione italiana, dimensioni e posizione internazionale che controllano filiere italiane, ma sono sempre meno a causa di una carenza di politica industriale, che comprenda anche quella fiscale e burocratica, e sia di stimolo non solo a far mantenere le posizioni ma anche di favorirne aggregazioni o acquisizioni estere mantenendo, però, in Italia il quartier generale e decisionale. Confindustria dispone di adeguata forza contrattuale per stimolare il Governo a incanalare un progetto di politica industriale, magari anche condiviso dalle opposizioni, mirato a depotenziare la de-industrializzazione, generandone di nuova e sostenendone quella esistente.

 

 

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