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Repubblica rivaluta la Befana (quasi estinta) per usarla contro il patriarcato

Ginevra Leganza
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Forse tra cent’anni non avremo i campanelli di Santa Lucia, non avremo il Vecchione a Bologna e forse neppure più la Befana. Ma che importa. Poiché l’uomo (maschile sovraesteso) non sopporta il vuoto d’immagini, poiché non sopporta l’assenza di estro o la penuria di fantasia, ecco che adesso, si diceva, abbiamo in compenso lui. L’immaginifico patriarcato. Il patriarcato di cui scriveva ancora una volta ieri Repubblica per conto del femminismo d’ultima ondata. Ed ecco. Figura parimenti folcloristica, il patriarcato non si manifesta, come la Befana, una volta sola durante l’anno.

Sbuca piuttosto ogni due per tre. Tre giorni sì e uno no com’è appunto sbucato ieri, 6 gennaio, per la festa dell’Epifania. «Tra mitologia, credenze popolari – scriveva Repubblica – la Befana incarna tutto ciò per cui le donne vengono giudicate secondo la visione patriarcale della società. Ma è tempo di rivalutarla». Tempo di rivalutare la nonna del popolo, dunque. Quella che dispensa carboni e dolciumi italiani (dai befanini toscani agli struffoli toscani). Quella che vola sui tetti e che con le sue rughe rappresenta, sostiene Rep, la demonizzazione della donna nonché la “disparità di genere” se poi, a differenza del pingue Santa Claus, viene bruciata in un falò. Insomma tempo di rivalutare la nonna che però in Italia già non festeggia quasi nessuno (non un coetaneo che organizzi feste, non un molesto che c’inoltri catene d’auguri come per Capodanno, non un bimbetto che, munito d’Internet e ChatGPT, non spernacchi i genitori quali beoti) e che quindi, stando al mondo intorno, più che vecchia parrebbe quasi già morta.

 

 

 

Sicché il fatto più interessante, in quest’ultima piroetta anti patriarcale, è proprio l’accanimento. Il paradosso della finta polemica di Repubblica, a suo modo marameldesca, contro un’anziana pressoché estinta. Il cui futuro non sembra promettente se è com’è ovvio condizionato dagli acquirenti di calze e dai mangiatori di dolciumi. Ossia dai ragazzini che si diradano nelle brume dell’inverno demografico, che sono pochi, sempre meno, e che se gli dici di vecchie volanti chiedono subito a ChatGPT e non ci credono più. Ma vabbè. Andando avanti, leggiamo ancora che «se osservato attraverso lenti femministe», la Befana ricorderebbe la fine che potevano fare le femmine ribelli ai dettami dell’autorità maschile.

 

 

 

«Brutta, zotica, scorbutica... la Befana incarna i più classici stereotipi utilizzati per denigrare e tenere a bada le donne che sconfinavano dai limiti imposti». La Befana incarnava e incarna il terminale della sorellanza di ultima generazione. Delle femministe di ultima ondata – più numerose ma meno sveglie dei ragazzini con ChatGPT – che come i ragazzini però s’offendono perché la Befana è brutta. Ohibò. Perché poi la bruciano. Oddio. Un po’ come se i vecchi maschi bolognesi s’offendessero per il rogo del fantoccio (il Vecchione, appunto) nella notte di Capodanno o come se i giovani smilzi lapponi si disperassero perché il lappone più famoso al mondo è un canuto ciccione. Ma già s’è detto. Il femminismo d’ultima ondata, nel nostro inverno demografico senza infanti, è il nuovo istituto dell’infanzia abbandonata. Ché se fra qualche anno non avremo più la Befana, non importa. Abbiamo in compenso lui. Figura del nuovo folclore. Immaginifico patriarcato.

 

 

 

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