Michele Serra si emoziona per i boss mafiosi che leggono libri: delirio su "Repubblica"
Succede che, due giorni fa, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli decapiti una delle tante teste dell’idra camorrista spedendo in carcere un manipolo di malavitosi brutti sporchi e cattivi appartenenti al potente clan Amato-Pagano. E Michele Serra ne approfitti per tratteggiare nella sua rubrica su la Repubblica – l'Amaca – un encomio in ode ai vecchi mammasantissima. Non quei panzoni abbronzati col Rolex d'oro sul polso (ovviamente rubato) che esibiscono orgogliosi il lardume come in Gomorra, ma quei malavitosi old style. Criminali che, come il whisky, migliorano incanutendo.
Serra premette di essere un «italiano di educazione mezzo borghese e mezzo comunista», che si commuove davanti alla bellezza di Berlinguer (Enrico o Bianca?) e di Picasso, e che pertanto ha in massimo orrore il “brutto” in tutte le sue forme. Così, sospirando, ricorda di «essersi emozionato, tanti anni fa, quando nel covo di un boss di camorra vennero trovati dei libri». Ma non libri qualunque, edizioni economiche di qualche romanzetto di quart’ordine che già sarebbe un miracolo che manco a Fatima: nossignore. Serra rimembra degli Adelphi, di cui si «avvistarono delle copertine» nei servizi al tg. E poi dicono che i malacarne non hanno gusto...
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Eh, sì: lo immaginiamo il padrino (di cui il giornalista non ricorda il nome), asserragliato nel suo bunker, circondato da kalashnikov, lingotti d'oro e santini di Tony Montana, mentre sottolinea con pathos le pagine più toccanti delle Memorie di Adriano preoccupandosi di mettere in bella vista gli altri volumi arrivasse casomai un blitz, e poi le telecamere non riescono a catturare il dettaglio. O mentre prova a nascondere una mazzetta di banconote in una edizione limitata di Nabokov o commuoversi alla vista di un capolavoro di Simenon. Come dar torto al buon Serra: altra pasta (criminale), altro spessore.
D’altronde, Raffaele Cutolo non era soprannominato il Professore per quegli occhialini da intellettuale e per il suo italiano (quasi) fluente che lo mettevano una spanna evolutiva sopra il suo braccio destro, Pasquale Barra, soprannominato 'o animale (ovvove) che era solito azzannare le viscere di quanti aveva spedito al Creatore? E che dire di Pasquale Galasso, ira funesta del Vesuviano, che era addirittura studente di Medicina? O di Luigi Giuliano, che dopo aver vissuto una ventina di anni come capo dei capi della camorra napoletana, ha deciso di pentirsi e di diplomarsi alla scuola per cantautori di Mogol? Che classe, che charme: vuoi mettere con questi chiattoni di oggi tutti tatuaggi e “se io avrei”?
Prosegue Serra nel suo encomio: «Pensai che finché un boss legge un libro “vero” un guizzo di luce è ancora vivo, in mezzo alle tenebre». Spiace deluderlo, ma non c'è alcuna correlazione tra buone letture e cattive azioni. Bernardo Provenzano, ad esempio, era un assiduo frequentatore delle pagine della Bibbia e sarebbe difficile dire che abbiano rappresentato «un guizzo di luce» per lui e per quei disgraziati che se lo sono ritrovati sul cammino. L'articolo però è ugualmente istruttivo, al di là delle incomprensibili e paradossali intenzioni: dimostra che una certa intellighenzia di sinistra più che da un’amaca osserva la realtà da una torre d’avorio che rende assai arduo distinguere il vero dal ridicolo.
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