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"Memoria", "Tradizione", "Cura", "Mamma": le 12 parole dell'anno per la redazione di Libero

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L’altro giorno l’Enciclopedia Treccani ha diffuso la parola scelta per il 2024: «Rispetto». «Per la sua estrema attualità e rilevanza sociale», nell’ambito della campagna di comunicazione #leparolevalgono, volta a promuovere un uso corretto e consapevole della lingua. Il Dizionario dell’italiano Treccani definisce il rispetto come un «sentimento e atteggiamento di stima, attenzione, riguardo verso una persona, un’istituzione, una cultura, che si può esprimere con azioni o parole». Una parola necessaria e troppo spesso dimenticata, infatti la scelta della Treccani è stata accolta con entusiasmo da commentatori, linguisti e anche dalla gente comune.

Noi di Libero abbiamo deciso di scegliere la nostra parola seguendo l’onda della Treccani. Sia chiaro, senza alcun intento di metterci in competizione con la massima autorità in fatto di lingua italiana. Direttori e giornalisti di Libero in queste due pagine hanno strappato dal vocabolario dodici parole che a loro avviso bisogna salvare e portare nel nuovo anno. Alcuni sono termini che usiamo - o abbiamo usato - tutti i giorni come «mamma», che pronunciamo spesso dimenticando quanta vita e quanto amore ci sono dentro quelle cinque lettere. Oppure «memoria» che non è nostalgia di ciò che non c’è più ma la certezza che quello che è stato resterà nei nostri ricordi attraverso un profumo, un sapore, un colore. Sì, abbiamo scelto anche la parola «amore» che non sono i cuoricini che ci mandiamo sui social, né gli “amori” sognati, vissuti o perduti, ma quell’anelito verso l’infinito che attraversa le nostre esistenze.
Alcune parole sono diventate desuete come «coraggio», «tradizione», c’è poi il vocabolo «tempo» che troppo spesso sprechiamo convinti che tanto “c’è tempo”. E poi «libertario», «cura», «socialità», «tempo», «orizzonte», «teatro». E c’è anche un verbo...

MEMORIA - Mario Sechi
Varcato il mezzo secolo di vita e vicino al giro di boa dei sessant’anni, ho cominciato a sgranare il rosario dei “mi ricordo”. Sarà l’inconscio, sarà il ginocchio che cigola con i primi freddi, sarà quel che sarà, ma quel “mi ricordo” è diventato il piacere della memoria. Nei giorni che precedono il Natale il ricordo s’approssima a certe ombre, certe luci, certi profumi, incerte sensazioni che furono e improvvisamente... sono. Il presepe costruito da mio padre, l’albero di Natale con gli aghi vivi, il bosco in casa, un che di silvano, quanto era lontano il nostro mondo di plastica, smaterializzato. “Mi ricordo”, “mi ricordo”, i libri dell’infanzia, quante avventure, cominciai con Stevenson e L’isola del tesoro e vi giuro che non ho ancora finito. Se incrocio Kipling sono nella giungla, con Collodi sono nel ventre della balena, inseguito da Mangiafuoco, mi do di gomito con la volpe e papà Geppetto che mi insegue invano. Fui burattino, fui pirata, fui naturalmente esploratore con Jules Verne, palombaro e capitano del Nautilus.

La vigilia di Natale andavo in chiesa per vedere tutto il paese, eravamo tutti lì, una finitissima moltitudine. «Tu di chi sei figlio?», era la domanda di quello che ti pescava mentre cercavi di spegnere e riaccendere le candele nella cappella di Santa Maria. Perché il Natale era anche una questione di natali, dove sei nato, dove sei vissuto, il cognome che porti e la storia che ricordi. Dunque, cari lettori, eccomi qui, sono tutta una questione di memoria, non sono il divenire, ma ciò che sono stato.

LIBERTARIO - Daniele Capezzone
Nel prezioso trittico “liberale, liberista, libertario” che ha accompagnato tanti di noi per tutta la vita come autodefinizione politico-culturale, è forse venuto il momento di valorizzare il terzo aggettivo, oggi il più potente e il meglio capace di distinguere un’identità da tutte le altre.

Sono troppi - infatti - a definirsi “liberali”, il che rende l’aggettivo sempre meno spendibile. “Liberisti” è una parola splendida, ma suscita diffidenze e necessità di spiegazioni a volte difensive, ahinoi. E allora ecco la necessità di sottolineare la connotazione “libertaria”: una sana e poderosa diffidenza nei confronti di ogni apparato pubblico, puntando a ridurre l’ingerenza dello stato nella nostra vita e nel nostro portafogli.

Siamo usciti da un secolo in cui la parola “individuo” era quasi impronunciabile, a beneficio di concetti (spesso minacciosamente scritti in maiuscolo: Stato, Partito, Sindacato) riferiti a entità pubbliche o collettive, a cui la cultura dominante attribuiva sistematicamente l’ultima parola.

Sarebbe venuto il momento di imporre un diverso “bipolarismo”: tra chi vuole allargare la sfera della decisione individuale e privata, e chi - al contrario - vuole continuare ad espandere la sfera della decisione pubblica o collettiva.

MAMMA - Pietrangelo Buttafuoco
Mamma è la parola da tener di conto per questo anno e per il domani che comincia ogni giorno. Mamma che non ce n’è una sola ma tante, tutte impastate di lacrime, di ansia, di speranza e di gioia. E mamma è il primo esercizio di labbra e attesa quando senza parola, senza ancora il passo che ci tiene in piedi, alitando latte e seno ne troviamo una. Ed è mamma.

La parola è mamma non solo perché non è genitore 2 ma perché ha una sfumatura diversa rispetto a genitrice. È unica, infatti, la parola mamma quando ci si toglie la cintura e le scarpe, perfino. Unica è quando si scioglie la propria cravatta al collo o sciarpa che sia. È unica quando, sotto lo sguardo occhiuto dei sorveglianti, si attraversa il metal detector.

Unica, quindi, si conferma, andando incontro alle loro mani nell’atto di dolore chiamato perquisizione. Ed è unica, insomma, perché nel documento che accompagna il visitatore alle sbarre, alle mura e al chiuso luogo del più disperato incubo, in quel foglio opportunamente vidimato da autorizzazioni dell’amministrazione penitenziaria per consentire il dovere dei doveri–visitare i carcerati – accanto alla dizione “padre” non c’è scritto “madre” ma più propriamente mamma.

Ps. Ne teniamo conto della parola mamma, per questo anno e per il domani che comincia ogni giorno, grazie alla Santa Sede che, come sede del proprio padiglione alla Biennale, ha scelto il carcere femminile della Giudecca a Venezia.

CURA - Brunella Bolloli
Quattro lettere, mille sfaccettature, il senso vivo di qualcosa a cui tutti agognano per stare meglio: la cura è la parola del 2024, ma potrebbe esserlo di ogni tempo, fin quando ci sarà bisogno di un soggetto che cura e di uno che deve essere curato. La cura è attenzione, aiuto, interessamento e riguardo per chi ci sta a cuore; è l’esercitare una generosità d’animo così affine al “rispetto” dal momento che avere cura di una persona significa prima di tutto rispettarla e, quindi, rispettarne il dolore e le fragilità. Spesso la cura tende al superamento del dolore altrui, cerca una soluzione alle sofferenze, è il primo obiettivo del “curante”. Avviene quando il “curato” è in difficoltà oggettiva, dipendente da chi bada a lui il quale rappresenta la massima espressione della cura: io mi prendo cura dite, tu ti affidi a me. Il termine anglosassone caregiver, ormai frequente anche da noi, si traduce proprio in “prestatore di cura”. Ma la cura è molto di più, non solo quella verso gli anziani o i disabili. È il rapporto che esiste tra due innamorati (come cantava Battiato), tra i genitori nei confronti dei figli, tra nonni e nipoti. La cura si dà e si riceve. Si curano le amicizie e le relazioni professionali. Si ha cura, o si dovrebbe avere cura, anche per i propri beni.

Certo, la predisposizione naturale è essenziale, non ci sono accademie che impartiscono lezioni di riguardo per gli altri e chi antepone se stesso a tutto, sappia che la cura non è la terapia, ma è una medicina dell’anima. Non deve mai mancare.

AMORE - Antonio Socci
«Amor, amore grida tutto l mondo,/ amor, amore omne cosa clama» (Jacopone da Todi). Tutto grida salvezza. L’universo stesso «geme e soffre nelle doglie del parto» (Rom 8, 22-23).

Nel 2024 è uscito il best-seller di Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies, Dio. La scienza. Le prove (Edizioni Sonda). Ci dice che tutto comincia 13,8 miliardi di anni fa dal Big Bang che ha dato origine contemporaneamente al tempo e allo spazio: da un punto infinitesimale e misterioso è iniziata l’espansione dell’universo. In questa corsa le stelle hanno prodotto gli elementi che sul pianeta terra, con una serie di “coincidenze” inspiegabili, hanno dato origine alla vita.

Il caso? O l’amore? Dante ce lo dice nel verso finale della Divina Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle». Tutto corre all’impazzata verso l’Amore da cui l’universo è sgorgato. Come ogni atomo di noi stessi, che è polvere di stelle. Fra le braccia dell’Amore che promette «nuovi cieli e una nuova terra». Questo proclama la bellissima enciclica pubblicata quest’anno da Papa Francesco: «Dilexit nos- Lettera sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo». Perché l’Amore che «omne cosa clama» è un bimbo nato a Betlemme. Lui è la Parola. «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1, 16).

ORIZZONTE - Lucia Esposito
È lì che dobbiamo puntare, verso quella linea infinita dove il cielo scende in terra e la terra si apre all’immenso, dobbiamo anelare a quel punto preciso in cui l’impossibile diventa possibile e inseguire l’orizzonte andando incontro all’abbraccio tra spirito e materia. Salvo la parola “orizzonte” perché ne evoca mille altre, nella spinta verso l’oltre che infuocava il viaggio di Odisseo c’è la voglia di scoprire, c’è il coraggio di chi osa e l’audacia di chi sogna, c’è il desiderio di chi va a cercare le stelle e immaginare panorami mai visti prima, c’è la libertà di chi spezza le catene fisiche e mentali che lo trattengono a riva e la temerarietà di chi parte sapendo che non arriverà mai a destinazione. 

Puntare all’orizzonte è tenere accesa la fiamma della fantasia e dare colori e forme ai mille e più mondi possibili dietro quel punto in cui il sole ogni giorno, da sempre, va a morire. È conservare la curiosità, è custodire lo stupore, è praticare l’arte della meraviglia, è coltivare la speranza che dietro quella porta si spalanchi il nostro Paradiso. Puntare il timone della propria esistenza verso l’orizzonte è restare incoscienti come bambini, è diventare vecchi con la saggezza del navigatore che conosce le trappole del mare, è attraversare le tempeste della vita senza lasciarsi travolgere dalle onde. Perché chi guarda verso l’orizzonte scorge l’aurora di un giorno che nasce, s’illumina davanti a un tramonto e, quando il buio ingoierà tutto e si sentirà smarrito, potrà aggrapparsi alla speranza della luce che verrà.

CORAGGIO - Pietro Senaldi
Aiuta sempre il coraggio, ma diventa dote imprescindibile quando solo quello può aiutare a uscire dall’angolo e garantirsi un futuro non tanto migliore del presente ma quantomeno non decisamente peggiore. Il 2025 chiama a un atto di coraggio l’Italia, l’Europa e l’Occidente.

Nei suoi primi due anni, il governo Meloni ha vinto le tre sfide fondamentali: diplomatica, economica e culturale. Si diceva che l’Italia sarebbe rimasta isolata ed è diventata il baricentro dell’Europa. Si profetizzava che saremmo falliti e abbiamo lo spread ai minimi e l’occupazine ai massimi. Si è martellato fino allo sfinimento su una supposta deriva autoritaria e ormai perfino da sinistra si levano voci che chiedono di piantarla con l’allarme fascismo, sostenendo che è controproducente. Ora, piantate le radici, è il momento di osare, se si vuole liberare l’Italia da ciò che le impedisce di crescere. Serve coraggio istituzionale ed economico, da non confondere con l’avventatezza.

Coraggiosa, anziché avventata, dev’essere anche l’Europea, fino a oggi impavida solo nel seguire ideologie suicide, come quelle green e woke. Quanto all’Occidente, visto che il suo faro, gli Usa, hanno cambiato guida, si può sperare in una spinta alla rivoluzione conservativa che unisca le due sponde dell’Atlantico.

TRADIZIONE - Luca Beatrice
Per riscattarla da una lettura troppo spesso fuorviante, talora negativa, certamente settaria, ho scelto di salvare la parola “tradizione”. Che costituisce la somma e la sintesi di quei fattori che compongono il nostro retroterra culturale. Ci avviciniamo al Santo Natale e tradizione vuole che si festeggi in famiglia, preparando i cibi migliori e accogliendo i cari nelle nostre case. Per tradizione trasmettiamo ai nostri figli determinati comportamenti di equilibrio e buona educazione, in certi ambienti ci vestiamo adeguatamente, usiamo il linguaggio nella maniera più ricca possibile a sottolineare la bellezza del nostro idioma rispetto al vuoto anglosassone esteso.

Tradizione significa rispetto del passato, non appiattimento sudi esso. Anzi, le tradizioni si possono innovare e lasciar spazio a forme diverse perché la cultura è sempre in movimento. Però senza la tradizione non avremmo i musei, le città d’arte, il teatro e la letteratura. Persino il rock, un tempo rivoluzionario, è diventato una forma tradizionale. Nessun conflitto generazionale, la tradizione cementa il rapporto tra le persone e forma l’identità culturale di una comunità, unendo l’alto e il basso, il sacro e il profano. Parola che a pronunciarla evidenzia la bellezza rassicurante che non si contrappone al nuovo ma anzi lo rende più solido e maturo.

SOCIALITÀ - Alessandra Menzani
Andare al ristorante invece di ordinare online, vedersi per un caffè invece di scriverci assillanti messaggi, uscire per il teatro o per il cinema e non solo guardare serie in streaming (essere spettatori e non solo consumatori), conoscersi dal vivo e non sulle app di incontri, fare lo sforzo di uscire di casa anche se i capelli non sono lavati e sarà noioso trovare un parcheggio. Presenza, socialità: alla fine basta vincere la pigrizia, non è difficile. Qualcosa si sta muovendo.

Qualche scuola sta vietando i cellulari, qualche governo vuole privare i social ai minori di 16 anni, tantissimi dottori spiegano quali siano i pericoli dell’iper-connessione e degli schermi per i piccoli, alcuni ristoratori vietano gli smarphone nei propri locali, invitando la persone a parlarsi. C’è un movimento silenzioso, ma qualcosa sta cambiando.

Senza sputare nel piatto in cui mangiamo, riconoscendo gli indubbi vantaggi della tecnologia, con un po’ di nostalgia guardiamo serie come Hanno ucciso l’uomo ragno e pensiamo che in quegli anni eravamo felici anche senza smanacciare Whatsapp, e comunicavamo lo stesso. Ci incontravamo pensate un po’ - anche senza scriverci ogni 10 secondi «sto arrivando», «sono quasi lì», bastava dare un orario e un luogo. Ci arrabbiavamo con ritardatari e bidonari ma eravamo ripagati dall’emozione della presenza, senza interruzioni telematiche, senza cercare la parola che non ci veniva su Google. Era bello. Ci potremmo riprovare.

COMBATTERE - Giovanni Longoni
Credere, obbedire e... Facile fare dell’umorismo sulla scelta di una parola ormai espunta dal vocabolario italiano contemporaneo: «combattere». Invece è il verbo che muove il mondo, anche quest’anno. «Fight» è stato il grido di Donald Trump ferito sul palco del comizio di Butler, Pennsylvania. E il repubblicano - con i giudici alle calcagna e i sondaggi che lo davano in difficoltà - ha continuato a combattere e alla fine ha vinto. Ma c’è anche chi non si arrende pur sapendo bene di aver perso: sono gli ucraini. Non c’è alcun dubbio ormai, nemmeno a Kiev, che l’invasore russo non sloggerà dai territori che si è accaparrato. E tuttavia Zelensky e i suoi non cedono, continuano a tenere le posizioni anche dentro il territorio nemico, nel Kursk. E dimostrano ancora una volta che Putin è un gigante coi piedi d’argilla. C’è poi un altro Paese in lotta con un Golia tirannico: è Taiwan. L’isola ribelle e democratica non combatte ancora ma si prepara, armandosi, a vendere cara la pelle in caso di una invasione. Infine Israele. Anzi, il suo premier odiato anche da tanti suoi compatrioti. Netanyahu non ha ceduto al ricatto dei sequestratori e seviziatori di Hamas. Ha mosso guerra a sud, a nord, a est. L’ostilità internazionale contro di lui e lo Stato ebraico è a livelli mai visti dal 1948. Il Paese è diviso, gli ostaggi in maggioranza morti o peggio. Ma Israele è salva, i suoi nemici in ginocchio, il resto del mondo lasciato a godersi la propria ipocrisia.

TEATRO - Ginevra Leganza
La capitale dissipa energie. Odia la quiete, complica l’amore. Rigetta il lusso della lettura (anche se qui tutti scrivono). Ed ecco che una sola cosa a Roma prospera ed è eterna. Una sola cosa che non è quieta. Che è complicata. Ma che rende solida e carnale la letteratura. Ed è il teatro. È stato l’anno del teatro per me che piano piano mi rassegno al garrito del gabbiano.

Per me che faccio pace con la città dove tutto è complicato, tormentato, irraggiungibile. Tutto. Tranne il teatro. Domani, a Monteverde, c’è il Faust di Leonardo Manzan e Rocco Placidi. È al teatro Vascello, di Manuela Kustermann, dove ho visto Antonio Rezza per la prima volta (e son rimasta a bocca aperta). Mi ci porta Viola Graziosi che in scena, quest’anno, mi ha incantata molte volte.
Dall’«Ancella» di Margaret Atwood, al teatro Basilica, a Anna (alias Marie Trintignant) a Palazzo Esposizioni. È stato l’anno del teatro perché è cominciato al Parioli con Franco Branciaroli (forse il più grande attore italiano?) ed è finito, settimana scorsa, con Gabriele Lavia all’Argentina. Col suo Re Lear lungo tre ore che rivedrei mille volte per pulirmi l’anima dalle millemila ore dissipate sui mezzi di locomozione. Nella città eterna, insensibile alle sue miserie, il teatro è eterno ed è ubiquo. Senza tempo e in ogni luogo. O meglio, in ogni quartiere. Il ’24 è stato l’anno del teatro, ed è bello sapere che, in quanto è eterno, lo sarà pure il ’25.

TEMPO - Enrico Paoli
Per favore, non pensate subito alle previsioni. Capisco l’effetto che posson fare le meteorine, ma sarebbe preoccupante. Perché il tempo, l’inesorabile scorrere dei minuti, delle ore, dei giorni, dei mesi e degli anni, rappresenta un bene immateriale d’inestimabile valore. «Si gioca con la cosa più preziosa di tutte», diceva Seneca, richiamando le care memorie scolastiche. Ma senza disturbare i grandi filosofi, basta mettersi sul davanzale della finestra della vita per rendersene conto. Chi davanti a sé ha più di tempo di quello vissuto, gioca a dadi con l’esistenza, inconsapevole dei rischi. Il banco potrà pure vincere, ma l’effetto della sfida dà una tale scarica di adrenalina, vorticosa come una cascata. Impossibile fermarla. Ma coloro i quali hanno più tempo alle spalle di quello riservato al loro futuro, anche sperando nell’immortalità, dosano secondi e ore, mesi e anni, confidando nella forza del giorno. Il tempo va vissuto, non subìto. Per questa ragione la ricerca del miglior finale è sempre una legittima aspirazione. Spesso capita di trovarsi dentro al gioco dei contrasti, dove i giovani chiedono strada a chi ha più annidi loro, oppure chi ha superato gli anta fa muro a chi è ancora sotto gli enta. E la storia dell’umanità, si dirà. In parte sì. Quando il trascorrere del tempo segna i volti, arrendersi alla forza dell’anagrafe non è facile. La saggezza dell’eta pesa, e il viale del tramonto è sempre troppo scuro. Il tempo è sì il bene più prezioso per l’uomo, ma è anche quello che si spreca con più facilità...

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