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Se il Fisco rischia di fermare la lotta contro la mafia

Simone Di Meo
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Le tasse evase mandarono in galera Al Capone in America, le tasse da pagare potrebbero far saltare il sistema del pentitismo in Italia. Colpa di una stretta che l’Agenzia delle entrate-riscossione ha avviato nei confronti dei collaboratori di giustizia in procinto di concludere il percorso di cooperazione con lo Stato: offrire informazioni sulle attività criminali in cambio di benefici, sia economici che giudiziari (sconti di pena, liberazioni anticipate). Tra queste utilità c’è anche la cosiddetta «capitalizzazione», un contributo una tantum che viene riconosciuto ai pentiti a fine carriera: una sorta di «tfr» che consente loro di tentare di rifarsi una vita legalmente. «Cifre non certo paragonabili a quelle di venti o trent'anni fa», spiega a Libero un investigatore di lunga esperienza, oggi in servizio in Lombardia dopo una lunga parentesi in Calabria e in Campania, «quando i collaboratori avevano un potere contrattuale enorme. Oggi una capitalizzazione si aggira sui 30mila euro a voler essere generosi».

«Soldi», spiega ancora la nostra fonte, «che di solito vengono investiti nell'acquisto di un'abitazione o di un'attività commerciale». Solo che, da qualche mese, si è attivata la tagliola dei pignoramenti nei confronti di quegli ex malavitosi che hanno accumulato centinaia di migliaia di euro di debiti con il Fisco. Pignoramenti che, in mancanza di altre fonti di reddito o patrimoniali, colpiscono il loro «tfr» lasciandoli senza un tetto e senza euro. «Il modo più veloce per farli tornare a delinquere», dice al nostro giornale un ex collaboratore di giustizia, oggi uomo libero e titolare di un b&b nel centro Italia. «Di fronte alla certezza di non poter più contare su quel piccolo gruzzoletto», aggiunge l'uomo, «non è escluso che qualcuno possa impugnare di nuovo la pistola».

Le Procure antimafia di mezz’Italia stanno tentando di sventare il disastro, ma finora con scarsi risultati. L’unica concessione dell’Agenzia delle entrate riguarda la dilazione dei debiti che, solitamente, sono infinitamente superiori agli importi del «tfr», come conferma l’informativa del Servizio centrale di protezione (dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell'Interno) che Libero ha potuto leggere.

La circolare, specificando che «la Pubblica Amministrazione, ove debba erogare somme a qualunque titolo, di entità pari o superiore ad euro 5mila, è tenuta preventivamente ad escludere la sussistenza di debiti erariali in capo al beneficiario delle stesse», ricorda che «l’importo di qualsivoglia capitalizzazione» è «superiore a tale limite» e, come tale, «non può essere escluso dalle verifiche» del Fisco. Che cosa fare, allora? Si legge sempre nell'informativa: «Per venire incontro alle esigenze della popolazione protetta, d’intesa con la commissione centrale perla definizione e l’applicazione delle speciali misure di protezione, è stata prevista la possibilità di rateizzare il debito».

Una soluzione che di fatto allungherebbe l’agonia perché, nel giro di un anno, l’intero tesoretto sarebbe letteralmente divorato dalle cartelle esattoriali. Allo stesso modo, i pentiti interessati ad acquistare una casa con il denaro della «capitalizzazione» potranno farlo, c’è scritto nella nota del Servizio centrale di protezione, «prescrivendo soltanto l’intestazione del bene immobile in acquisizione [...] al medesimo debitore esecutato», e non al coniuge come di solito veniva fatto in passato. L'unica soluzione sarebbe cancellare i debiti fiscali così come già avviene con le spese di giustizia ad opera dei Tribunali di sorveglianza.

«Di questo passo, non converrà più collaborare con la giustizia», conclude il pentito, «perché non c'è alcuna garanzia dello Stato su quello che avverrà “dopo”: seguendo i ragionamenti dei mafiosi, tanto vale rischiare oggi il carcere piuttosto che sperare domani di cominciare una nuova esistenza».

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