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Germania, dopo Volkswagen anche Audi: sta per chiudere lo stabilimento in Belgio

Carlo Nicolato
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Ci voleva un governo retto dai socialdemocratici, dai verdi e dai liberaldemocratici, nonché una Commissione europea guidata da una cristianodemocratica tedesca, per chiudere il cerchio e far andare a gambe all’aria la premiata industria automobilistica teutonica. E sì perché nella crisi che sta registrando un settore che un tempo veniva considerato inattaccabile, al di là delle congiunture, del momento storico e degli errori strategici, ci sono grosse responsabilità nelle politiche green decise a Bruxelles con l’avallo entusiastico delle sinistre e degli ecologisti.

Parliamo in particolare dell’imposizione dell’elettrico con data di scadenza, il 2035, quale anno del definitivo abbandono dei combustibili fossili. Un assist all’industria automobilistica cinese già molto più avanzata della nostra in tale produzione (per non parlare di quella delle batterie), e di conseguenza una sorta di calcio negli attributi a quella europea.

 

 

Il caso della Volkswagen è emblematico. Alla fine dello scorso anno la casa automobilistica di Wolfsburg ha annunciato che per sostenere la transizione imposta da Bruxelles avrebbe dovuto ridurre i costi di produzione di 10 miliardi di euro entro il 2026. Un’impresa improba aggravata dalla crisi delle vendite registrata dal Covid in poi, che qualcuno forse pensava si potesse affrontare con qualche prepensionamento.

La fine dell’illusione è arrivata in questi giorni con l’azienda simbolo di un’intera nazione che ha annunciato di non poter più garantire che tutti gli stabilimenti rimangano attivi. Oggi la dirigenza della Volkswagen dovrebbe esporre i propri piani davanti a 18mila lavoratori in assemblea a Wolfsburg; tra le ipotesi, si parla in particolare della possibile chiusura di Osnabruck in Bassa Sassonia e di quello di Dresda in Sassonia, regioni dove peraltro, e non a caso, i partiti di estrema destra e quelli di estrema sinistra stanno facendo incetta di consensi.

Destino medesimo potrebbe peraltro toccare alla fabbrica dell’Audi, stesso gruppo, che si trova in Belgio. In oltre 80 anni di storia, da quando iniziò la sua produzione proprio durante la dittatura nazista, la “macchina del popolo” non aveva mai chiuso uno stabilimento, ne aveva solo aperti di nuovi. Con la necessità di garantire «gli adeguamenti strutturali urgenti per una maggiore competitività nel breve termine» la Volkswagen ha anche annunciato la fine dell’accordo di tutela dell’occupazione, mandando all’aria un programma di sicurezza del lavoro siglato con i sindacati nel 1994 sotto l’egida di Helmut Kohl.

La crisi è soprattutto tedesca, ma non riguarda certo solo la Germania. E i dati, se letti con l’occhio verso il 2035, sono inconfutabili. Nei primi 7 mesi del 2024 sono state vendute 7.906.191 auto, il 3,9% in più dell’analogo periodo dell’anno scorso. Ma le vendite di quelle elettriche anziché aumentare sono diminuite del 10,8% a 102.705 unità, passando al 12,1% del mercato europeo rispetto al 13,5% dell'anno precedente. Il contrario di quello che la Ue si sarebbe aspettata.

Secondo Gian Primo Quagliano, presidente del Centro Studi Promotor, una parte importante della responsabilità della crisi va proprio ricercata nelle politiche di Bruxelles «che ha imposto pesanti investimenti all’industria automobilistica dell’area e che in presenza di uno scarso interesse da parte del pubblico per l’auto elettrica ha determinato la necessità per gli Stati di sostenerne la domanda con incentivi di rilevante entità. Si sono create inoltre le condizioni per una forte penetrazione nel mercato dell’Ue di auto elettriche cinesi».

La risposta dell’Unione Europea in proposito è stata quella di imporre dazi sulle auto Made in China, il che già di per sé è un controsenso per una istituzione nata dall’abbattimento dei dazi e che negli ultimi 20 anni ha fatto della delocalizzazione della produzione (in Cina) una bandiera. Ma la cura rischia di risultare perfino peggio della malattia, perché Pechino sembra orientata a rispondere a sua volta con dazi pesanti sulle importazioni di auto europee di media e alta gamma. La tempesta perfetta per le case automobilistiche tedesche che proprio sull’esportazione di quelle vetture contano per compensare le perdite dovute alla transazione.

 

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