Moda, continua la crisi dei big del lusso. Si salvano solo i marchi italiani
Il mercato del lusso non tira più. O almeno continuano nel trend negativo delle vendite e dei ricavi con evidenti segni di crisi per i colossi della moda. I dati analizzati da Smi-Sistema Moda Italia dimostrano infatti che il rallentamento, iniziato nella seconda metà del 2023, si è ulteriormente accentuato, con il 75% delle aziende che ha registrato una flessione del fatturato rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. E per il terzo trimestre il sentire degli imprenditori è di un ulteriore peggioramento delle condizioni di mercato. Di conseguenza, si stima che i primi nove mesi del 2024 si chiuderanno con una flessione del fatturato complessivo del settore intorno al -6,2%.
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Tuttavia, ci sono alcuni marchi italiani che continuano a prosperare, dimostrando una notevole resilienza in un contesto globale complesso. Il gruppo Prada, ad esempio, che nei primi sei mesi del 2024 ha visto i ricavi netti superare i 2,5 miliardi di euro, in aumento del 17% anno su anno mentre le vendite retail si sono attestare a 2,26 miliardi, +18% anno su anno, trainate da crescita like-for-like e volumi full price. Il marchio Prada, in particolare, ha registrato una performance superiore alla media di mercato, con vendite retail aumentate del +6% su base annua, e una crescita del +5% nel secondo trimestre. Anche Miu Miu, l'amatissimo marchio ideato nel 1993 da Miuccia Prada, ha confermato la traiettoria di forte crescita, registrando un'ottima performance nel primo semestre, +93% anno su anno, di cui +95% nel secondo trimestre. Numeri impressionanti se si pensa al delicato momento che sta attraversando il settore del lusso, e se si considera che il gruppo Prada ha messo a segno 14 trimestri consecutivi di crescita.
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In controtendenza rispetto all'andamento del mercato del lusso mondiale sono anche i numeri di Moncler. Il gruppo di Remo Ruffini, di cui fanno parte Moncler e Stone Island, ha archiviato il primo semestre 2024 con ricavi a 1,23 miliardi di euro, in crescita dell'11% rispetto allo stesso periodo 2023. Tra i marchi con consumatori 'high spender', che continuano a performare bene, c'è anche Brunello Cucinelli che ha concluso i primi sei mesi con un fatturato di 620,7 milioni di euro, in crescita del +14,7%.
Ma per ogni brand che corre ce ne è un altro che soffre. Labitalia fa l'esempio di Kering, che fa capo al presidente e ceo Francois-Henri Pinault, cui appartengono marchi come Gucci, Balenciaga, Alexander McQueen, Bottega Veneta e Saint Laurent. Da gennaio a giugno 2024, Kering ha messo a segno vendite pari a oltre 9 miliardi di euro (-11%), con le vendite del secondo trimestre (aprile-giugno 2024) in calo del -11%. Gucci, in particolare, fiore all'occhiello del gruppo, e il più profittevole fino a qualche stagione fa, ha riportato vendite semestrali in forte ribasso: 4,1 miliardi di euro (-20%), mentre nel secondo trimestre, le vendite sono scese del 19%. Insomma, spiega Labitalia, la griffe della doppia G non è riuscita ancora a invertire la rotta, soprattutto a causa delle difficoltà registrate nei mercati chiave, soprattutto nell'area Asia-Pacific, dove il brand ha registrato un "continuo calo significativo". Il marchio ha avviato l'anno scorso una nuova fase ma l'effetto Sabato de Sarno, nominato alla guida creativa del marchio più di un anno e mezzo fa, stenta a farsi sentire.
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Segni negativi anche nella semestrale del colosso francese del lusso di Bernard Arnault, Lvmh, che in portafoglio, tra gli altri, annovera marchi come Fendi, Dior, Louis Vuitton, e che ha archiviato la semestrale con vendite per 41,7 miliardi di euro, in calo dell'2% rispetto allo stesso periodo del precedente esercizio. Gli utili del gruppo, cui fanno capo 75 marchi, sono stati di 7,2 miliardi, in decrescita del 14%. Risultati deludenti sono stati registrati anche da Burberry, che ha visto le vendite calare del 21% nel primo trimestre dell'anno.
La fase tormentata che sta attraversando il mercato del lusso dipende da diversi fattori. In primis, spiega Labitalia, la diminuzione dell'interesse da parte dei consumatori globali per gli articoli di alta gamma, viste le incertezze macroeconomiche dell'economia e del mercato cinese. A pesare in Occidente sono invece l'inflazione, che rende difficile ai consumatori del lusso di fascia medio-alta di conservare lo stesso comportamento d'acquisto dei beni extra luxury, l'aumento progressivo dei costi di produzione e delle materie prime, e di conseguenza del ritocco all'insù dei cartellini. Un esempio su tutti? La 2.55 di Chanel. La borsetta icona della maison di rue Cambon, pelle matelassé e tracolla a catena, quando uscì nei negozi nel 1955 costava appena 220 dollari. Nel 1990 il prezzo è salito a 1.150 dollari, e oggi supera i 10mila. La griffe francese non è certo l'unica ad aver elevato negli anni i listini ma assieme ad Hermès è di sicuro quella che più di frequente ha rivisto al rialzo i propri prezzi. Al contrario i marchi italiani hanno saputo adattarsi alle nuove condizioni del mercato, adottando strategie mirate che hanno permesso loro di mantenere una posizione di forza. Prada, Moncler e Brunello Cucinelli hanno puntato sull’espansione delle vendite al dettaglio e sull’innovazione dei prodotti, senza mai perdere di vista la qualità e la forte identità che li caratterizzano. Questa capacità di coniugare tradizione e modernità ha consentito loro di mantenere alta l’attrattiva dei loro prodotti, attirando una clientela fedele e disposta a investire in beni di valore duraturo.
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