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Auto elettrica, l'effetto del voto: il "no" di Berlino non basta più a paralizzare la Ue

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Sandro Iacometti
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I vecchi padroni dell’Europa stanno cercando in tutti i modi di conservare il loro predominio. Ma per quanti tentativi si possano fare di ignorare il verdetto delle urne per replicare l’antico blocco di potere che governa il Continente da decenni, le cose stanno cambiando. Certo, la mossa di Bruxelles sui dazi può essere dovuta all’ansia di Ursula von der Leyen di dimostrare che la nuova Ue può nascere anche sotto il suo comando. Di sterzate, molte delle quali in direzione proprio della nostra Giorgia Meloni che, piaccia o no, sarà determinante per la definizione dei futuri equilibri, ne avevamo già viste diverse negli ultimi mesi. Anche accompagnate e sostenute da quel Ppe che ora fa un po’ il pesce in barile. Ma l’iniziativa di Bruxelles sulle misure anti-Cina, prima del voto non sarebbe stata possibile. Ed è la dimostrazione che il vecchio asse Parigi-Berlino, i cui leader di governo sono stati travolti dalla bufera elettorale, inizia vistosamente a scricchiolare e perdere colpi.

 Matteo Salvini è stato caustico e diretto, come al solito. «Prima l'Europa di Ursula Von der Leyen approva norme folli a favore della Cina e dei suoi prodotti, poi vengono travolti dal voto dei cittadini e mettono dei dazi sulle auto, a danno fatto». La Lega, ha proseguito, «è sempre stata a favore dei dazi per arginare Pechino ma per anni in Europa ci hanno risposto con insulti». La solita iperbole del leader del Carroccio? Non proprio. A confermare le parole dure del vicepremier ci sono le reazioni provocate dalla decisione di Bruxelles, che hanno portato allo scoperto chi fino ad ora ha boicottato il muro difensivo contro la concorrenza sleale asiatica. «Dal nostro punto di vista, sarebbe molto auspicabile raggiungere una soluzione amichevole. Non abbiamo bisogno di ulteriori ostacoli commerciali, dobbiamo facilitare il commercio globale», ha spiegato il portavoce del governo tedesco, Steffen Hebestreit, in una conferenza stampa, aggiungendo che «è bene che la Commissione offra adesso dei colloqui alla Cina». Ma come?

 

 


Berlino ora vuole dialogare con Pechino? La posizione riconduce alla difficile situazione del mercato dell’auto tedesco, che da una parte sta facendo accordi con il Dragone per abbassare gli altissimi costi di produzione dell’elettrico e dall’altro esporta ancora molto in Asia e teme ripercussioni. Secondo Gianclaudio Torlizzi, Fondatore di T-Commodity e consigliere del ministro della Difesa, a Bruxelles «non è stata evidentemente accolta la controargomentazione avanzata dalle multinazionali automobilistiche tedesche secondo cui i profitti derivanti dalle loro attività (in declino) in Cina dovevano servire per reinvestire nelle tecnologie pulite in Europa/Germania». La verità, spiega Torlizzi, è che «si tratta di una mossa coraggiosa della Commissione, di fronte alla resistenza tedesca, resa possibile dalla disfatta dei sostenitori del green deal alle elezioni europee. Sono i primi effetti dei risultati del voto europeo. Non è un cambio totale di paradigma, ma certamente un passo avanti nella giusta direzione».


Torlizzi si concentra sulla Germania, ma basta sentire le parole di Stellantis, gruppo partecipato dallo Stato francese, per capire che anche per Parigi, che ufficialmente spinge per i dazi (la Peugeot li chiede da tempo) ma non perde occasione per flirtare con Xi Jinping (si veda l’ultima visita ufficiale del presidente cinese), il tema non è proprio indifferente. Di fronte alla mossa di Bruxelles la casa automobilistica controllata anche dagli Agnelli-Elkann, che hanno vissuto per decenni grazie ai contributi pubblici del governo, si riscopre paladina del libero mercato e della concorrenza selvaggia, roba da anarco capitalisti. «In quanto azienda globale», si legge in una nota, «Stellantis crede nella concorrenza libera e leale in un ambiente commerciale mondiale e non sostiene misure che contribuiscono alla frammentazione del mondo».

Insomma, quando si tratta di mettere le targhette tricolore sulle auto prodotte in Marocco e in Polonia per vendere di più e beccarsi i sussidi, il gruppo tiene all’italianità, ora invece rivendica la sua natura di «azienda globale». La società nata, anche, dalle ceneri della Fiat, in ogni caso, fa sapere che la decisione non la coglie del tutto impreparata. E una delle vie d’uscita, guarda un po’, potrebbe essere proprio il veicolo societario creato con la cinese Leapmotor, una joint venture controllata al 51% che inizierà a breve a commercializzare le sue auto anche da noi e che, spiegano, «potrebbe beneficiare dell’impronta diversificata di Stellantis in Europa». Si vedrà. Nel frattempo, in Italia c’è chi festeggia. Non solo il governo, con il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, che esprime «soddisfazione», ma anche le aziende della filiera. «Misura necessaria, solo attraverso un approccio integrato e mirato, l'Unione europea potrà proteggere la propria industria automobilistica, garantire l'occupazione e affrontare le sfide future con fiducia e determinazione», fanno sapere da Unimpresa.

 

 

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