I mercati non temono le destre ma la fine delle vecchie élite
Qualche buontempone oggi potrebbe sfruttare la tempesta sui mercati finanziari che imperversa da quando si sono aperte le urne delle europee per ritirare fuori la solita storia degli investitori che temono le destre, l’onda nera, l’arrivo di nazionalisti e sovranisti e chi più ne ha più ne metta. L’occasione è particolarmente ghiotta, perché malgrado l’epicentro del terremoto si trovi chiaramente a Parigi, con il clamoroso successo del Rassemblement National e la decisione di Macron di indire nuove elezioni, Piazza Affari ieri è stata la peggiore, con un crollo che ha sfiorato il 2%. E anche lo spread non è andato benissimo. Vuoi vedere che dietro il caos c’è ancora una volta lo zampino del successo del centrodestra e di Giorgia Meloni?
La fantasiosa ipotesi può essere facilmente smontata dai numeri, che fra l’altro smentiscono anche senza ombra di equivoci la possibilità che il mercato e la destra non vadano d’accordo. Basta prendere l’indice FtseMib. Ad ottobre 2022, quando il governo si è insediato, era a 20.972 punti. Ora, malgrado le flessioni di questi giorni, è a 33.874. Si tratta, al di là dei livelli che non si vedevano dal 2008, di una crescita del listino di Milano del 60%.
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E dunque? Quello che sta accadendo è ovviamente il frutto di molteplici fattori, primo fra tutti l’incertezza politica scatenata dalle sconfitte elettorali in Francia, Germania e Spagna dei governi in carica. Poi ci sono le banche centrali che ci mettono il carico. Quando si tratta di rassicurare, nessuno sembra essere più inadatto di Christine Lagarde, che a inizio Covid fece precipitare i mercati con le sue affermazioni e che ieri è tornata a ribadire che il mini-taglio dei tassi non deve creare illusioni, perché la Bce è intenzionata a procedere con la stretta finché sarà necessario. Oggi probabilmente un messaggio simile arriverà dalla Fed, con il presidente Jerome Powell che oltre ai dati economici deve anche fare i conti con il duello tra Joe Biden e Donald Trump per le presidenziali.
Poi, intendiamoci, potrebbe trattarsi di fibrillazioni temporanee, destinate a placarsi nei prossimi giorni. Non fosse così, c’è anche un’altra spiegazione. Fondi, multinazionali e investitori sopravvivono anche in ambienti ostili. E negli ultimi decenni hanno imparato a convivere con un ecosistema impervio come quello dell’Ue, dove, a detta di tutti gli osservatori, la iper regolamentazione rende complicatissimo fare affari (un caso su tutti le nozze Ita-Lufthansa). A fronte delle difficoltà, però, sono arrivate valanghe di sussidi per finanziare tutto ciò che è ambientalmente e socialmente sostenibile.
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La giostra è impazzita negli ultimi anni con il green deal, che ha spinto le imprese ad indirizzare tutti gli investimenti per fregiarsi il petto con i gagliardetti Esg (Environmental, Social, Governance), che negli Usa hanno già iniziato a riporre nei cassetti. E se la nuova Europa indicata dalle urne fosse più pragmatica e meno ideologica? E se fosse finito il tempo delle vecchie élite che governano da decenni il Continente, sottovalutando minacce geopolitiche e guerre commerciali? Sarà un caso, ma ieri Stellantis ha detto che per il progetto della fabbrica di batterie per auto elettriche a Termoli bisognerà aspettare fine anno. Il cambiamento potrà inizialmente disorientare, ma la corsa di Piazza Affari negli ultimi due anni dimostra che un po’ di buon senso non è affatto sgradito ai mercati.