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Europee, la finanza in tilt: perché non crede allo status quo dell'Ue

Sandro Iacometti
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La cattiva notizia è che i mercati non hanno reagito bene al voto. Soprattutto al terremoto che si è scatenato in Francia. La buona è che gran parte dell’agitazione degli investitori dipende dalla consapevolezza che dopo il verdetto delle urne, con l’indebolimento della cosiddetta maggioranza Ursula (Ppe, socialisti, liberali, verdi e alcune aggiunte a sorpresa tipo M5S) a favore di conservatori ed estrema destra, non potrà non non avere ripercussioni sul baricentro politico della nuova commissione. In altre parole, per quanti tentativi potranno fare gli azionisti di maggioranza del potere bruxellese di andare avanti come se nulla fosse, su green deal, competitività delle imprese e debito comune, servirà un cambio di direzione.

Il che è una cosa positiva, considerati gli impatti negativi sulle finanze di imprese a famiglie provocati o attesi dal vecchio corso, ma è pur sempre una novità, che costringerà fondi d’investimento e player mondiali ad adattarsi in modi e forme non ancora chiari. Ed è l’incertezza, probabilmente, l’ingrediente che ha scosso ieri i corsi di azioni, obbligazioni e valute. Travolti da una mini tempesta che non dovrebbe durare troppo a lungo.

LA MICCIA
Il colpo, comunque, si è fatto sentire. Ad accendere la miccia, inevitabilmente, è stata Parigi, dove il clamoroso successo di Marine Le Pen e del suo Rassemblement National che ha spinto il presidente francese Emmanuel Macron ad indire nuove elezioni nazionali a fine mese si è trasferito fin dalle prime ore del mattino ai listini. La situazione è diventata meno pesante con il trascorrere della giornata e al termine delle contrattazioni, dopo essere sprofondato oltre il 2%, l'indice parigino Cac ha chiuso in calo dell'1,35%. Hanno tenuto meglio ma hanno terminato la seduta comunque in rosso anche Francoforte e Milano, scese entrambe dello 0,34%, mentre Londra ha contenuto le perdite a -0,22%. Non meglio le cose sono andate sul mercato secondario dei titoli di Stato, complice anche il fatto che dal primo luglio la Bce inizierà a chiudere i rubinetti degli acquisti di bond governativi (riducendo il portafoglio del PEPP di 7,5 miliardi di euro al mese, in media). Il rendimento del Bund tedesco a 10 anni è salito del 3% al 2,67%, al top da sei mesi. Stessa sorte per le obbligazioni decennali francesi balzate del 3,5% a oltre 3,22, toccando picchi che non si vedevano da novembre. Ma lo stesso copione si è visto anche in Grecia (+10 punti), Spagna, Portogallo e Belgio (+9 punti).

 


In sofferenza, manco a dirlo, pure l'Italia, malgrado sia stata l’unica tra le grandi economie della Ue che ha visto il voto premiare il governo in carica: il rendimento del Btp decennale è salito del 3% tornando a quota 4,078 sui valori di inizio dicembre. Parallelamente si è allargato il differenziale con i Bund. Dopo aver chiuso venerdì scorso a 135 punti lo spread in apertura di giornata si è impennato per chiudere a 140 punti. L'attenzione degli investitori, oltre che ai risultati delle Europee, è comunque rivolta anche alla Federal Reserve, che domani si riunirà per decidere le prossime mosse sulla politica monetaria. I mercati non si attendono un taglio dei tassi, com'è accaduto giovedì scorso nell'Eurozona, e scommettono invece che il presidente della Fed, Jerome Powell, lascerà il costo del denaro al suo picco del 5,5%. E male, infine, è andato anche l'euro, che è sceso fino a 1,073 sul dollaro (-0,6%), ai minimi da un mese a questa parte.


«È improbabile che il Parlamento impedisca progressi su priorità chiave come la sicurezza e la competitività» ma un «margine più sottile» della coalizione centrista, ammette Moody’s, «potrebbe rendere più difficile ottenere la conferma di una nuova commissione e l'approvazione di alcune leggi». Anche Barclays giudica «improbabile una radicale inversione di marcia». Epperò la banca d’affari, pur ribadendo che il Ppe dispone di una «confortevole maggioranza» non esclude che «posizioni più dure sull'immigrazione e meno green deal» siano possibili. Anche perché lo stesso Ppe ultimamente aveva già virato su decisioni più pragmatiche e meno condivise dai socialisti.

La prudenza, per ora, è la strada più seguita dagli analisti. «Sicuramente la destra avrà un peso maggiore nel prossimo parlamento, anche le divisioni tra i partiti impediranno di influenzare in modo significativo l'agenda legislativa», sottolineano gli economisti di Unicredit Research, convinti anche loro che la forte performance del Ppe rafforzi le possibilità che Ursula von der Leyen, possa essere nominata per un secondo mandato.

DRAGHI
Negli scenari possibili spunta anche Mario Draghi. Tradizionalmente, le tre posizioni di capo della Commissione, del Consiglio e del Parlamento sono condivise tra le tre principali forze politiche (Ppe, Renew, S&D). Questa volta però, con i partiti nazionalisti di destra più fortemente rappresentati sia nel Parlamento sia nel Consiglio, è possibile che emerga più opposizione a questa distribuzione tradizionale dei ruoli. Paradossalmente, Arnaud Marès, economista di Citi, vede in questo un lato positivo per l'Europa: è possibile infatti che ciò porti a un consenso crescente a favore della nomina di Draghi come presidente del Consiglio Europeo, poiché dovrebbe godere del supporto sia dei centristi nel Consiglio Ue (Macron) sia dei nazionalisti (Meloni). Se fosse così, «lo vedremmo come positivo, perché la capacità del presidente del Consiglio Ue di definire l'agenda del dibattito europeo, combinata con la comprovata capacità di Draghi di raccogliere sostegno a favore di iniziative pragmatiche, farebbe ben sperare per la capacità di continuare a fornire politiche coerenti». La sostanza è che i mercati stanno cercando di fiutare dove girerà il vento. Ma già il fatto che stia girando, dopo i numerosi passi falsi di Bruxelles degli ultimi anni, dovrebbe indurre all’ottimismo.

 

 

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