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Tasse, l'algoritmo anti-evasori che accusa le partite Iva

Sandro Iacometti
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La gogna delle partite Iva ieri è scattata a sorpresa sul Sole 24 Ore. Stupisce un po’ che il quotidiano di Confindustria, che in teoria dovrebbe stare sempre dalla parte di chi crea ricchezza e piazza il suo denaro, posseduto o preso in prestito, in quello che non a caso viene chiamato rischio d’impresa abbia deciso di giocare al tiro al bersaglio. Fatto sta che chi ieri si è imbattuto nel noto giornale dalle pagine rosa si è trovato sulla copertina a caratteri cubitali l’elenco dei cattivi. “Lavanderie, noleggi, sport e ristoranti: ecco le categorie più a rischio evasione”. Ancora peggio il titolo all’interno: «Lavanderie, noleggi e ristoranti: ecco la classifica dell’evasione”. La preda viene offerta al lettore disattento su un piatto d’argento. Ecco chi ruba il nostro denaro, chi viola la legge, chi ci costringe a pagare tasse più alte del dovuto. Domani quando andremo a far lavare e stirare i nostri vestiti guarderemo in cagnesco il titolare. Se in Italia non funziona niente e abbiamo una delle pressioni fiscali più alte del globo è colpa sua. Lui che ci pulisce alla perfezione le nostre camicie, ma che non ci rilascia mai lo scontrino e fa la bella vita a spese dei contribuenti onesti.

Possibile che i nostri indumenti, le belle serate passate in un ristorante e i veicoli che affittiamo in caso di necessità siano affidati ad una banda di criminali? Cerchiamo di andare un po’ più a fondo. Per farlo non serve un tributarista od un esperto di fisco. Basta leggere l’articolo. La lista di proscrizione è infatti compilata non sulla base di dati reali relativi ai furbetti beccati a frodare l’erario, ma sugli indici di affidabilità fiscale. Un meccanismo con cui da un po’ di anni l’Agenzia delle entrate ritiene di poter beccare chi non versa il dovuto.

 

 

 

La classifica, si legge, è costruita «in base alla quota di contribuenti che in ogni categoria non riesce a raggiungere nelle pagelle fiscali il voto 8. A questo punto, dimenticate le vostre esperienze scolastiche o le pagelle dei vostri figli. Per il fisco l’8 è la sufficienza. Al di sotto c’è l’evasore, presunto, potenziale o vero. Quella è infatti la soglia minima per consentire agli ispettori delle entrate di considerare “affidabile” la vostra dichiarazione dei redditi.

A fare i voti, però, non c’è un professore o un maestro, ma un’equazione, un algoritmo. Che potrebbe anche andare bene se si basasse su dati reali. Forse molti genitori sarebbero felici che le interrogazioni dei propri ragazzi fossero valutate in base ai calcoli di un microprocessore piuttosto che agli umori, ai pregiudizi e alle idiosincrasie di un essere umano (con tutto il rispetto per lo straordinario lavoro che fa, sottopagato, il nostro corpo insegnante). Ma qui il discorso è totalmente diverso. L’algoritmo, infatti, non opera su dati reali riferiti al singolo contribuente, ma su dati statistici. «A costruire il giudizio», si legge sempre nell’articolo del Sole 24 Ore, «è un algoritmo fondato su una ricca architettura di parametri, che tengono conto del settore economico di riferimento, dell’area geografica oltre che delle dinamiche vissute dai principali costi come l’energia e il lavoro dipendente». È su queste basi che «viene attribuito al reddito di ognuno dei 2,73 milioni di autonomi soggetti agli Isa, gli indicatori di affidabilità fiscale, il voto.

Vi ricorda qualcosa? Il meccanismo somiglia da vicino al redditometro, rispuntato un po’ per distrazione un po’ per sbaglio qualche settimana fa e subito rimesso nel cassetto dal governo. Accertamenti presuntivi. Se ti compri un’auto di grossa cilindrata devi pagare un certo livello di tasse, se hai una lavanderia in centro devi guadagnare questo. Se l’algoritmo non individua la congruità tra il dichiarato e il tuo livello “presunto” di reddito scatta l’inversione della prova, tu diventi un evasore e devi dimostrare il contrario. Nel caso degli Isa, l’inaffidabilità fiscale significa perdere l’accesso ai sistemi premiali e finire sommerso da una valanga di controlli fiscali da cui, alla fine, qualcosa, per quanto piccola, emerge sempre.

 

 

 

Il sistema getta una rete in cui, per forza di cose, qualche pesciolino resta incastrato? Forse. Ma se il fisco pretende correttezza da parte dei contribuenti deve essere lui per primo ad elevarla come principio cardine della sua attività. È anche per questo che nel nuovo concordato preventivo biennale rivolto proprio agli autonomi soggetti agli indici di affidabilità fiscale è stato eliminato il voto 8 come prerequisito per poter accedere alla misura.

Intendiamoci, le ultime statistiche del tax gap indicano una propensione all’evasione che si attesta nel 2021 al 67,2% per l’Irpef degli autonomi. Il problema esiste. Quando sinistra e sindacati decantano le lodi di dipendenti e pensionati come contribuenti modello (anche perché le tasse le paga il sostituto d’imposta) resta da capire con chi facciano affari questi farabutti con la partita Iva. Di sicuro non possono vendere e acqusitare beni e servizi solo fra di loro.

Se a questo ci aggiungiamo il fatto che anche pensionati e dipendenti, quando ne hanno la possibilità, evadono senza troppi problemi i tributi locali, l’Imu, il canone Rai, le multe e le tasse su affitti e rendite finanziarie, allora forse bisognerebbe cambiare impostazione. Iniziare a capire che l’evasione si combatte sì con i controlli (ora resi molto più efficaci dalle transazioni elettroniche e dall’incrocio delle banche dati), ma soprattutto abbassando le tasse. E che nessun cittadino, contribuenti compresi, dovrebbe mai essere considerato colpevole fino a prova contraria, pena la perdita di fiducia degli onesti verso lo Stato. La questione è complessa e di non facile soluzione. Ma criminalizzare partite Iva e imprenditori non è certo la strada giusta.

 

 

 

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