Nuovo Fisco, meno tasse e più diritti: i gufi sono serviti
I gufi sono serviti. E gli scettici pure. «Non ce la faranno mai», diceva qualcuno lo scorso autunno. «Sarà l’ennesimo tentativo a vuoto», si vociferava, anche dalle parti della maggioranza. E invece, un po’ oscurata dalle tensioni geopolitiche, dalla partita sui conti pubblici e pure dalle vicende personali del premier, la riforma del fisco, asse portante del programma di centrodestra, fila come un treno.
Prima dell’estate la corsa contro il tempo per approvare la delega, e ora il turbo per portare a casa i decreti legislativi, come aveva annunciato il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, prima della fine dell’anno. Forse non proprio tutti i tasselli andranno al loro posto per Natale. E forse la scarsità di risorse finanziarie non consentirà di rispettare fino in fondo da subito tutti gli obiettivi indicati nella delega. Ma la carne già messa al fuoco finora è tanta roba. Per il boccone più succulento, il taglio delle tasse, ci siamo dovuti accontentare di un assaggio.
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Tante speranze, pochi soldi. Però il segnale arrivato con il provvedimento varato la scorsa settimana, il decreto fiscale che accorpa (riducendole a tre) le aliquote Irpef e alza il primo scaglione del 23% a 28mila euro di reddito, è chiaro: rotta verso la semplificazione del sistema tributario e l’alleggerimento dei balzelli. L’auspicio è che quanto prima anche le tasche del ceto medio, che si spezza la schiena, produce ricchezza e finanzia gran parte del welfare italiano, potranno vedere entrare qualche quattrino in più. Tuttavia, sarebbe un errore madornale sottovalutare il peso delle riforme fiscali a costo zero (o quasi), che stanno prendendo forma in queste settimane. Dopo la fine degli acconti per gli autonomi, che da decenni strozzano le partite Iva costringendole ad anticipare il dovuto (presunto) all’erario, ieri il governo ha approvato altri due decreti legislativi che sono il cuore del nuovo fisco, i cardini su cui far operare quella rivoluzione copernicana che porta il contribuente, e non gli obiettivi di incasso, al centro delle politiche impositive.
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LA LEGGE PIÙ CALPESTATA
Da una parte c’è la guerra alla burocrazia, che si declina in una riduzione e razionalizzazione degli adempimenti, in uno spostamento delle incombenze sul lato dell’amministrazione, con l’estensione delle dichiarazioni precompilate anche per le partite Iva, con la revisione dei fallimentari Isa, gli indici sintetici di affidabilità fiscale, la semplificazione dei pagamenti e della modulistica, l’incremento delle modalità di interazione digitale.
Ma è nell’altro decreto che si intravede il vero cambio di passo. Al centro del provvedimento c’è infatti lo Statuto del contribuente, che da 23 anni è la legge più calpestata, ignorata, maltrattata e vilipesa dell’intero corpo legislativo della Repubblica. Avete presente l’inversione dell’onere della prova, la retroattività delle norme tributarie, l’impossibilità per il cittadino di difendersi di fronte a pretese assurde e vessatorie? Ecco, sono tutte circostanze vietate dallo Statuto e rese possibili solo grazie a specifiche, numerosissime e troppo frequenti deroghe introdotte dal legislatore per fare quello che lo Stato non dovrebbe mai fare: accanirsi sui più deboli non riuscendo ad avere la meglio sui più forti (come dimostrano le tristi statistiche sull’incapacità finora dimostrata di intaccare in maniera sensibile la quota di evasione fiscale). Ebbene, il decreto varato ieri non innalza lo Statuto dei contribuenti al rango di norma costituzionale, ma poco ci manca. Stabilisce che le sue regole sono «conformi» a quelle previste dalla Carta in materia tributaria e a quelle del diritto europeo e alla Convenzione Ue sui diritti dell’uomo.
Rafforza l’obbligo del contraddittorio, amplia i diritti del cittadino e i doveri dell’amministrazione, che quando cade in errore deve agire prima che qualcuno ne facciale spese e deve mettersi a disposizione del contribuente per chiarire, spiegare e documentare. Novità importanti, che possono sembrare poca cosa solo a chi le tasse, per un motivo o per l’altro, non le paga.