Per semplificare la pubblica amministrazione non basta rottamare le leggi
Semplificazione: e chi non è d’accordo? C’è chi ha contato quasi 200mila leggi emanate nei 160 anni, o giù di lì, di unità d’Italia. Ne resterebbero vigenti circa 110mila, secondo i soliti bene informati. La decisione della ministra delle Riforme, Maria Elisabetta Casellati, di cancellarne 9mila è lodevole, ma come si vede dai numeri, del tutto inadeguata al problema. In verità, è proprio il problema a essere diverso. L’obiettivo non è solo svuotare il mare, con un secchiello, più o meno capace, ma di non riempirlo più. Quando se ne occupò Roberto Calderoli - con il famoso rogo allestito in una caserma dei vigili del fuoco a Roma, nel marzo del 2010 – i numeri sembrarono molto più robusti, ma l’allora ministro della Semplificazione fu abile nel sommare mele e pere, cioè leggi e regolamenti, atti e disposizioni. La somma comunicata allora fu di 375mila “carte” di varia natura finite in cenere. E dopo? Si è continuato a legiferare, tanto e male. E visto che il potere legislativo è in capo alla politica a poco serve lo scaricabarile adottato a carico della burocrazia, la quale si trova a gestire l’esistente, fatto di una congerie di atti contraddittori, raramente raccolti in Testi Unici.
Il vero problema – disse Alfonso Celotto, il costituzionalista consigliere di Calderoli – è che si continua a fare uso dei cosiddetti provvedimenti omnibus, dove oltre alle vere e proprie norme si inseriscono normative sempre più minute e aggiustamenti minimi di altre leggi o decreti. Senza provvedere alla compilazione di codici che rendano le norme ordinate e applicabili. Negli ultimi dieci anni la Germania ha legiferato più o meno come l’Italia, ma ha prodotto codici che rendono le leggi un corpo omogeno e coerente. È vero che la burocrazia è un capro espiatorio, ma è altrettanto vero che ai burocrati la “nor metta” piace. Nel mio non breve periodo alla presidenza dell’Inps – lo ammetto – ho contribuito anch’io a una sorta di iperfetazione normativa, suggerendo commi e articoli finalizzati a risolvere le incertezze rappresentatemi dai dirigenti dell’Istituto: «Con una norma siamo tutti più sereni» (l’aggettivo era ancora utilizzabile senza il retrogusto amaro che provò Enrico Letta) mi sentivo dire dalle direzioni. Come scriveva Sabino Cassese poco più di un anno fa: «La legificazione delle decisioni amministrative, pur limitando o escludendo la discrezionalità amministrativa, è vista con favore dalla burocrazia, che è contenta di evitare responsabilità e di allontanare il pericolo di essere chiamata a rispondere alla Corte dei conti, all’Anac o alle procure penali.
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Ma danneggia i cittadini (che hanno minori possibilità di difendersi contro le leggi) ed erode la democrazia (perché amministrare per emendamenti legislativi rende l’esercizio del potere meno visibile)». Disboscare la giungla sarebbe utile, se non la si concimasse. Sembra che i politici italiani siano dediti a quel passatempo – di breve successo, di provenienza giapponese – che imponeva il nutrimento quotidiano di una entità digitale, il Tamagochi, che senza gesti di attenzione continua si sarebbe spento, con sommo disdoro del “curante”. Nutrire di leggi il Tamagochi è il passatempo poco nobile della politica italiana. E in questo vizio forse viene dimenticato l’aforisma di Tacito, che negli Annales scriveva: «Corruptissima re publica plurimae leges». Cioè: «Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto».
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