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Materie prime, Europa schiava della Cina

Michele Zaccardi
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«Sfortunatamente, siamo stati informati dalle controparti cinesi che le date previste per la prossima settimana non sono più possibili e ora dobbiamo cercare alternative». La sintesi dell’irrilevanza dell’Unione europea sullo scacchiere internazionale è contenuta in questo scarno comunicato diffuso da Bruxelles martedì scorso. Mentre il segretario al Tesoro statunitense, Janet Yellen, volava a Pechino per provare a ricucire gli ormai logori rapporti con il colosso asiatico, Pechino annullava la missione dell’alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue, Josep Borrell, previsto per la settimana prossima. 

Tutto rimandato, con tanto di smacco per l’Ue, relegata in secondo piano rispetto agli Stati Uniti. Anche perché avere un canale di comunicazione diretto con Pechino è tanto più importante in questo momento. In settimana, infatti, il governo di Xi Jinping ha annunciato una serie di controlli sulle esportazioni di gallio e germanio, metalli fondamentali non solo nei semiconduttori più avanzati ma anche nell’industria della difesa e, soprattutto, in quella dell’energia pulita.

IL PROVVEDIMENTO 
Certo, non si tratta di un embargo né dell’introduzione di quote all’export. Ma non per questo la decisione appare meno temibile. Con il provvedimento, Pechino si è infatti riservata la possibilità di effettuare dei tagli ad personam delle forniture, visto che dal primo agosto il ministero del Commercio potrà fare le pulci a ogni singolo acquisto effettuato da importatori stranieri. Dalle parti di Bruxelles aleggia il timore che la misura possa preludere a una strategia volta a usare le materie prime critiche per la transizione come un’arma geopolitica, sulla scorta di quanto fatto dalla Russia con il gas e il petrolio. Il motivo di tanta apprensione risiede nella forte dipendenza dalla Cina per tutti i materiali indispensabili a quella rivoluzione verde su cui, incautamente, l’attuale Commissione guidata da Ursula von der Leyen e dal suo vice, il falco ambientalista Frans Timmermans, ha instradato l’intero Continente.

Insomma, se la Cina dovesse tagliare le forniture, la decarbonizzazione a tappe forzate dell’Europa sarebbe irrimediabilmente compromessa. Secondo uno studio di Bloomberg, infatti, la dipendenza dei Paesi Ue dal gigante asiatico è molto elevata: per alcune terre rare la Cina è addirittura l’unico fornitore. Il 98% del fabbisogno europeo di magnesio, fondamentale per la produzione di alcuni componenti dell’industria militare e dell’automotive, è soddisfatto da Pechino, mentre per il litio la percentuale è del 79%. È di provenienza cinese, poi, il 67% dello scandio consumato in Europa, che trova applicazioni nell’industria aerospaziale, il 65% del bismuto (magneti) e il 62% del vanadio (leghe metalliche). Infine, la dipendenza per gli approvvigionamenti di gallio e germanio, i due metalli oggetto delle recenti restrizioni, è pari rispettivamente al 71% e al 45%.

Considerati questi numeri e viste le crescenti tensioni con il Dragone, non sorprende che a fine giugno Italia, Francia e Germania abbiano siglato un accordo di cooperazione per aumentare la diversificazione delle forniture di materie prime e terre rare. Insomma, i maggiori paesi Ue hanno deciso di muoversi in sinergia per liberarsi, almeno in parte, da una dipendenza sempre più estesa.
Del resto, la rilevanza di Pechino nel settore fa parte di un chiaro disegno politico. Come evidenzia un recente studio realizzato dalla società di consulenza The European House-Ambrosetti insieme a Iren, il predominio cinese si dispiega soprattutto attraverso il controllo del processo di lavorazione di numerosi materiali critici per la transizione. Se a livello mondiale il 52% del litio viene estratto in Australia e il 69% del cobalto in Congo, la Cina, «pur avendo una capacità estrattiva significativa solo in relazione alla grafite (64%, ndr), concentra la maggiore capacità di raffinazione per tutte le materie prime chiave delle batterie, ad eccezione del nichel».

Ma che il dominio di Pechino sia il frutto di una precisa strategia e non del caso lo testimonia anche l’impegno finanziario profuso dal governo e dalle imprese cinesi. L’Impero Celeste, si legge sempre nello studio di The European House-Ambrosetti «può fare leva sugli investimenti esteri diretti che ha portato avanti in paesi dotati di giacimenti minerari strategici». Negli ultimi quindici anni, dieci Stati ricchi di materie prime hanno ricevuto dalla Cina 80 miliardi di euro. Un fiume di denaro che è andato a sostenere le attività di estrazione e produzione in mezzo mondo: dall’Australia, a cui sono stati destinati 26,6 miliardi di euro, al Congo (13,7 miliardi) passando per il Perù (11,8 miliardi).

INVESTIMENTI
Il risultato di quella che lo studio definisce «un’aggressiva politica di investimenti» si condensa in un paio di numeri: mentre la Cina detiene soltanto il 3 e l’11% della capacità mineraria globale di cobalto e litio, le imprese cinesi ne controllano rispettivamente il 25 e il 24%. Così, intanto che Pechino stendeva la sua ragnatela per conquistare il monopolio della produzione di materie prime e terre rare, l’Unione europea stava a guardare. L’intervento più importante su questo fronte risale infatti soltanto allo scorso marzo, quando Bruxelles ha presentato il Critical Raw Materials Act, un pacchetto di misure volto ad assicurare ai paesi membri approvvigionamenti diversificati dei materiali strategici. Peccato che, a parte fissare alcuni obiettivi su riciclo e aumento delle estrazioni sul territorio europeo, il piano della Commissione di concreto faccia poco o nulla. E soprattutto non c’è traccia di risorse. Di questo passo, non sarà facile liberarsi dal giogo cinese.

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