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Lavoro e 1° maggio, addio giustizia sociale: il parassitismo sta dilagando

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Iuri Maria Prado
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Quante volte avete sentito dire che l’evasore fiscale è un ladro? Tutti i giorni. Ed è spesso una mezza verità, nel senso che altrettanto spesso i soldi su cui l’evasore non paga le tasse sono tuttavia frutto di lavoro, mica di rendita parassitaria; e, nuovamente spesso, quell’evasione non serve a finanziare una vita da nababbo ma a tenere su attività che altrimenti dovrebbero cessare e a mantenere un regime di vita poco più che modesto e a volte anche meno.

E invece avete mai sentito dare di ladro a quello che disdegna un’offerta di lavoro regolare, con stipendio magari non sontuoso ma rispettabilissimo, per un’occupazione magari non da sogno ma dignitosissima? Gli appioppano di ladro, a questo qui? Mai. Ma la verità è che questo è ladro due volte. Se infatti si mantiene altrimenti, con soldi suoi (ma si ammetterà che è improbabile), niente da dire: se invece rifiuta quel lavoro e quello stipendio perché gli arriva comunque una delle tante prebende assicurate comunemente nella Repubblica democratica fondata sul lavoro degli altri, beh, quello è. Un ladro.
Con la differenza, rispetto all’evasore, che quest’altro ruba i soldi non lavorando e per non lavorare.

Si potrà dire che non è ancora una situazione generalizzata e che, per uno che rifiuta un lavoro che c’è, ne esistono tre che invece non trovano proprio nessun lavoro. Ammettiamolo pure. Ma è ormai generalizzata l’idea che lo Stato, coi soldi di chi lavora, debba mantenere chi non lavora a prescindere dai motivi per cui non lo fa. L’idea, appunto, che giustizia sociale significhi mantenere ladri e parassiti. 

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