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Salone del Mobile, fantasia lavoro e fatturato: ecco l'Italia che ce la fa

Giovanni Sallusti
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Il Salone del Mobile è il cigno nero, la variabile imprevista, il paradosso salvifico. Quello di una manifestazione troppo clamorosa per essere sottaciuta dal mainstream, che capovolge come un calzino tutta la retorica del mainstream. L’Italia fanalino d’Europa, orfana della sapienza tecnocratica, chiusa nel suo fortino tardosovranista, l’Italia arcigna che danza con lo spettro della povertà abolendo il reddito di cittadinanza, l’Italia che non ce la fa. Non ce la può fare, altrimenti gli editorialisti dei giornaloni perderebbero la faccia, se non il posto di lavoro. E quindi si passano questa profezia da una testata all’altra sperando che si avveri, a mo’ di testimone del malaugurio interessato.

LA CARTA E LA REALTÀ
Poi, arriva il Salone del Mobile. D’improvviso, la realtà di carta diventa carta straccia, e prende piede la realtà dei capannoni, dell’ingegno, dei fatturati. L’altra Italia, maggioranza silenziosa che una volta all’anno rompe il mutismo spontaneamente, mettendo in mostra quello che sa fare da sempre: avere delle idee, e ricavarne del lavoro e della ricchezza. In questi giorni tra gli stand, negli eventi del Fuori Salone, nell’operosità al quadrato che avvolge Milano, avamposto d’Occidente in Italia, rimbalzano le parole con cui Luigi Einaudi dipinse quello che è tutt’oggi il ritratto insuperato dell’imprenditore. «Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno».

Eccola, la più esplosiva molla di progresso, lo spettacolo della libera impresa che persegue il profitto, che è proprio quel che i sedicenti progressisti nel migliore dei casi non comprendono, se non addirittura combattono. La loro parola magica è “redistribuzione” (la veste accettabile e millennial del socialismo), mentre al Salone imperversa ciò che sta a monte, senza cui non è possibile redistribuire alcunché: la produzione. E imperversa come non mai. Secondo uno studio di Confcommercio Milano-Lodi-Monza e Brianza, il Salone del Mobile 2023 innesca un indotto di 223,2 milioni di euro, con incremento del 37% rispetto all’anno scorso. Edizione da record anche per il numero dei visitatori: oltre 327mila, a fronte dei 262mila del 2022. La presenza di stranieri è stimata al 65%, con l’aumento di americani e il ritorno dei cinesi, ovvero le maggiori economie del pianeta. Federalberghi Milano prevede un’occupazione media di oltre l’80%, con punte vicine al 100% in questi primi giorni. Poi, c’è tutto il non quantificabile, quelle einaudiane «clientele sempre più vaste» che si ottengono gironzolando tra i padiglioni, si amplificano agli aperitivi, si consolidano in qualcuno degli oltre 800 appuntamenti del FuoriSalone. C’è la “mano invisibile” di Adam Smith costantemente all’opera per una settimana, alla Fiera di Milano, quella chiave segreta che volge il sano egoismo del mercato in concreto benessere sociale. Poi, fuori, c’è una segretaria di partito, tal Elly Schlein, che sproloquia di ong e suprematismo bianco. Si trovava nominalmente a Roma, in realtà in un universo parallelo. Nel nostro, quello del Salone e della “vocazione naturale” a intraprendere, l’Italia ce la fa, eccome.

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