Pnrr, per rilanciare l'Italia serve gestire meglio i soldi Ue
Avrebbe dovuto “unire” l’Italia – almeno per interesse - ma il Pnrr sembra destinato a dividerla. C’è chi vorrebbe tagliare un po’ delle risorse richieste, chi invece non vuole recedere da un euro di quelli promessi. Il problema temo che sia tutt’altro e si riduce a questo: coerenza con gli obiettivi proposti e capacità di spendere in relazione ai progetti dichiarati. Ma prima un passo indietro: quanti soldi ci sono (teoricamente) a disposizione? Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, presentato dall’Italia, prevede investimenti per 191,5 miliardi di euro finanziati attraverso il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza.
Si tratta di 68,9 miliardi a fondo perduto, e di 122,6 miliardi di prestiti.
In un caso come nell’altro si tratta di debito: diretto nel secondo caso, indiretto nel primo. Anche i denari a fondo perduto che verranno (forse) dall’Ue dovranno essere rigenerati nel bilancio comunitario dalle risorse dei singoli Paesi dell’Unione. Italia compresa, ovviamente.
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FONDI A DISPOSIZIONE - L’indebitamento è la ragione principale per cui la gran parte dei Paesi Ue ha richiesto solo una (piccola) parte dei 750 miliardi complessivi resi disponibili da Bruxelles. Secondo i calcoli svolti qualche tempo fa da Unimpresa, Germania, Francia e Spagna non hanno preso un euro di prestiti, limitandosi a utilizzare le risorse a fondo perduto.
È evidente che con l’avvicinarsi dei calcoli per la manovra finanziaria dell’anno in corso, sapere se arrivano o non arrivano le rate promesse dalla Ue faccia tremare le vene ai polsi del Mef. L’urgenza del bilancio rischia di oscurare i “tre assi strategici condivisi a livello europeo”, che avrebbero dovuto ispirare tutta la progettualità: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale”.
Si sarebbe dovuto trattare di interventi tesi a riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica, contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana, e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. Ma noi oggi, a tre anni di distanza dal varo del Piano, non stiamo discutendo sulle strategie delle infrastrutture di trasporto e mobilità sostenibile, né di grandi programmi di digitalizzazione delle migliaia di pubbliche amministrazioni centrali e locali, né di un programma di ristrutturazione del patrimonio immobiliare scolastico o sanitario.
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DAL DIRE AL FARE - Stiamo invece verificando se Comuni ed enti locali (chiamati a spendere circa la metà delle risorse del Pnrr) abbiano provveduto alla realizzazione del museo del giocattolo medievale, o allo depolveratura dei libri della biblioteca municipale: cito a caso dallo sterminato elenco di progetti inseriti nel Pnrr, secondo le richieste avanzate dai territori. Sacrosanti obiettivi delle comunità locali, ma coerenti con gli obiettivi di “ripresa e resilienza”? I Comuni si sentono nel mirino del solito scaricabarile. E reagiscono, accusando il Governo (i Governi in realtà, dal Conte2 che non era riuscito a scrivere il Piano, al Draghi unico, che ha scritto e forse non molto bene il Pnrr, al vigente Meloni) che non funziona nemmeno la piattaforma informatica – Regis, il suo nome, poco repubblicano – che avrebbe dovuto essere l’interfaccia digitale per gestire e monitorare le risorse del Pnrr. Non si tratta di trovare il colpevole, o di lasciare qualcuno con il cerino in mano. Si tratterebbe di avere il coraggio di correggere e magari coordinare meglio quella solita spesa a pioggia, che tanto piace alla politica italiana – per cercare e trattenere il consenso redistributivo – ma che poco serve a rilanciare un Paese che resta sempre in fondo alle classifiche che misurano efficienza, produttività e innovazione.