Crac Svb, retroscena: l'errore di Biden che può condannarci
«Ci saranno nuove regole». Prometteva Barack Obama nel settembre 2009, un anno dopo il devastante fallimento della Lehman Brothers. «Non ci fermeremo qui, faremo tutto il necessario e anche oltre, rafforzando la regolamentazione bancaria», ha detto ieri Joe Biden, cercando di gettare acqua sull’incendio divampato dopo il fallimento della Silicon Valley Bank (e, a ruota, di Signature Bank). Intendiamoci, la stragrande maggioranza degli esperti assicura che le due vicende non sono paragonabili, che il sistema bancario oggi è molto più forte e che i mercati hanno gli anticorpi sufficienti per evitare il contagio. Ed è evidente che dietro il crac della Svb ci sono cause ben diverse dalla bolla dei mutui subprime, a partire dalle maldestre mosse di politica monetaria delle banche centrali fino alla fragilità finanziaria delle criptovalute e alla precarietà, altrettanto se non più pericolosa, degli investimenti innovativi rigorosamente green.
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Sta di fatto che a 15 anni di distanza una nuova bomba esplosa nel credito statunitense ha propagato la sua onda d’urto su tutti i listini mondiali (solo in Europa sono stati bruciati 291 miliardi), scatenando ondate di panico che non si vedevano, appunto, da quel lontano 15 settembre. E nulla da allora, sembra di capire, è stato fatto per evitare che accadesse. Per carità, siamo sempre pronti a criticare la nostra vigilanza, nazionale ed europea, per i mille vincoli imposti alle banche, gli stress test, i requisiti patrimoniali, lo smaltimento delle sofferenze, la qualità degli attivi. Scocciature, sicuramente. Pignolerie che spesso comportano oneri aggiuntivi, appesantiscono i bilanci e fanno irritare i soci. E che in passato, va detto, neanche hanno impedito il disastro delle banche popolari (dall’Etruria a Pop Vicenza) o di Mps.
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PERDITE
Epperò forse in questo modo abbiamo evitato oggi, come accade negli Usa, che le banche siano sedute su 620 miliardi di perdite potenziali (attività che sono diminuite di prezzo ma non sono state ancora vendute, tipo i bond governativi che hanno fatto saltare Svb), come riportano le rilevazioni della Fdic (Federal deposit insurance corporation), o che il 30% dei depositi sia detenuto da piccoli istituti oppure che il 50% dei conti correnti non sia coperto da assicurazione. Motivo per cui First Republic Bank è andata a picco ieri a Wall Street (stiamo parlando di cali delle quotazioni arrivati fino all’80%), così come Western Alliance, entrambe considerate le prossime vittime dell’effetto domino di Svb. E c’è chi nel mirino ha già messo pure Pacwest bancorp e Charles Schwab. Altre piccole banche di cui nessuno fino a ieri conosceva il nome ma che potrebbero costituire il micidiale innesco di una nuova crisi planetaria.
Sarebbe anche da capire in che modo solo un paio di settimane fa il colosso mondiale Kpmg abbia potuto certificare lo stato di buona salute finanziaria di Sbv e Signature. Così come ci si dovrebbe chiedere per quale diavolo di ragione Intesa Sanpaolo e Unicredit, le due banche più capitalizzate e solide del Paese, ieri abbiano perso in Borsa rispettivamente oltre il 6 e il 9 per cento.
Il che fa capire, purtroppo, che adesso nessuno è al sicuro. Ora si tratta di vedere cosa farà la Bce, la stessa così attenta a vigilare sulle nostre banche, che dopodomani ha in programma un altro bel rialzo dei tassi dello 0,5%. Scelta che si tramuterebbe inevitabilmente in una molotov gettata in mezzo al rogo. Aver passato gli ultimi anni a proteggere il sistema bancario e poi mandarlo a gambe all’aria per i pruriti di qualche “falco” sarebbe difficilmente comprensibile.