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Investimenti green solo di facciata: occhio, come ti fregano

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Gestione soldi

Manuela Donghi
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L’Italia sembra sempre più verde in termini di finanza. Il rapporto Global Landscape of Renewable Energy Finance 2023 ha rivelato che lo scorso anno gli investimenti globali nelle tecnologie perla transizione energetica hanno raggiunto 1,3 trilioni di dollari. Un nuovo record, con un aumento del 19% rispetto ai livelli del 2021 e del 50% sul periodo precedente la pandemia. Negli ultimi due anni gli investimenti sull’ecosostenibilità sono arrivati a 35mila miliardi di dollari in tutto il mondo. Secondo un report di Banca di Italia gli investimenti green risultano in crescita del 15%. E gli italiani si dichiarano sempre più interessati agli investimenti sostenibili: secondo la Consob, la quota di chi è disposto a considerare strumenti finanziari con caratteristiche di sostenibilità, è passata dal 60% nel 2019 al 74% circa nel 2021.
Ma qual è il profilo dell’investitore sostenibile?

Sempre secondo lo studio, è giovane, con una laurea, propenso a valutare un impiego di denaro sul lungo periodo, con la volontà di creare un portafoglio diversificato e con una visione ottimistica delle performance che potrebbe ottenere. Negli ultimi anni, soprattutto a partire dall’adozione dell’Agenda 2030 e dalla sottoscrizione dell’Accordo di Parigi nel 2015, l’integrazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile nelle strategie d’investimento, è sempre più frequente. I mercati dei capitali hanno un ruolo centrale nel sostenere una crescita economica a basso impatto ambientale. Ma il detto “non è tutto oro quello che luccica” vale anche in questo contesto, purtroppo. Fin qui pare tutto perfetto: verrebbe quasi da dire che siamo diventati cittadini di un Paese virtuoso e responsabile, eppure...

 

 

Occhio alle promesse ingannevoli, ai messaggi distorti che esaltano qualità che non esistono, truffando il consumatore. Quando qualcosa è richiesto, rischia di diventare di moda, in questo caso nel senso negativo della questione. E oggi «essere green» è molto di moda. Alcune aziende pensano infatti che basti ostentare un attaccamento all’ambiente e al pianeta per guadagnare punti in reputazione e immagine. Questo fenomeno si chiama greenwashing, sincrasi delle parole inglesi green (verde, colore simbolo dell’ecologismo) e washing (lavare), termine che ha un collegamento diretto con il verbo “to whitewash”, ossia imbiancare. Ma perché le aziende dichiarano di essere amiche dell’ecologia, quando in realtà non lo sono? Senza girarci troppo intorno, è una “finta pratica virtuosa”, usata come strategia di marketing per attirare il pubblico sensibile al tema, per acquisire nuovi clienti. Insomma: io, azienda, dimostro di essere impegnata su temi etici e di dare vita a progetti e iniziative che aiutino il pianeta nel senso più ampio del termine e tu, consumatore, contribuisci pagando un bene per una buona, anzi, ottima causa.

 

 

Peccato che quest’ultima non esista. Si tratta di un falso impegno che in realtà vuole solo aumentare i profitti e che viene fatto attraverso campagne, messaggi pubblicitari o iniziative di responsabilità sociale. In Italia, il greenwashing, in quanto pubblicità ingannevole, è controllato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato. L’Antitrust. Da sapere: a citare per la prima volta il termine è stato l’ambientalista statunitense Jay Westerveld nel 1983 per denunciare il falso messaggio di alcune catene alberghiere che invitavano a limitare il consumo di asciugamani per ridurre l’impatto sull’ambiente. La reale motivazione era piuttosto legata a questioni economiche: meno utilizzo di biancheria, meno impiego di personale, e quindi meno costi di gestione. Ma attenzione: il greenwashing non è facile da stanare. 

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