Pensioni, Natale Forlani: "Quando andranno in pensione i nati negli anni '60..."
Integrazioni al trattamento minimo, assegni sociali, sgravi contributivi. Ogni anno lo Stato deve trasferire all'Inps una mole sempre più ingente di risorse per sostenere la spesa assistenziale. Un trend che, secondo l'ex presidente di Italia Lavoro e, dal 2010 al 2012, direttore generale del ministero del Lavoro, Natale Forlani, non è sostenibile. «Dal 2008 la spesa per queste prestazioni è raddoppiata, passando da 73 miliardi di euro a oltre 140: è un'indicazione chiara che il problema non è la separazione tra previdenza e assistenza ma che, se le pensioni non vengono assistite dallo Stato, e cioè dai contribuenti, il sistema non sta in piedi. Tanto è vero che, non avendo più soldi per finanziare i trasferimenti, si svalutano le pensioni».
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Situazione preoccupante?
«Questo è quanto avvenuto negli ultimi 15 anni. Il problema, poi, si aggraverà in futuro perché la popolazione in età lavorativa diminuirà in modo significativo. Rispetto al 2019, abbiamo perso 650mila persone in età da lavoro. Il risultato della decrescita demografica è che nel 2039 avremo 5 milioni di lavoratori in meno. E poi c'è il fenomeno dei baby boomer. I nati tra gli anni '60 e '70, una coorte molto numerosa, si ritireranno nei prossimi anni: nel 2039 ci saranno 1 milione e 600mila pensionati in più. C'è da considerare il fatto che oggi c'è un lavoratore ogni 0,65 pensionati. Ma entro il 2039 il "tasso di contribuzione" peggiorerà fino a 1,8. Se invece si considera il numero di trattamenti, dal momento che molti pensionati ricevono più di un assegno, il rapporto è quasi di uno a uno già adesso. Infine, tra il 2010 e il 2020, lo Stato ha erogato 200 miliardi di sgravi contributivi per incentivare le assunzioni. Interventi di questo tipo diminuiscono il contributo della forza lavoro anche in termini di volume, non solo di occupati».
Ma cosa ha fatto lievitare la spesa in assistenza?
«Una caratteristica del sistema italiano è che usa le pensioni per fare altro. Ad esempio, la pensione di cittadinanza. In nessun altro Paese europeo esiste una misura del genere: chi è povero riceve un sussidio ma non una pensione. Qui invece ogni cosa è un pretesto per dare soldi a persone meno abbienti. Tra l'altro non c'è nemmeno un sistema che quantifichi questi interventi. Non si sa, ad esempio, da quanti enti è assistita la stessa persona, perché non è mai stata fatta una mappatura delle spese di assistenza, come gli aiuti erogati dai Comuni. Il risultato è che, calcolando gli incrementi annuali, lo Stato, da solo, ha speso in totale 320 miliardi di euro in più negli ultimi anni. E la povertà è raddoppiata, passando da poco più di 2 milioni nel 2008 a oltre 5 milioni».
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Che lettura dà di questo fenomeno?
«È distorto il meccanismo redistributivo. La povertà è diventata un pretesto per dare soldi a chiunque si dichiara povero. Non c'è una base di accertamento del reddito credibile e l'Inps non ha gli strumenti adeguati per farlo, quindi ci si affida alle autodichiarazioni Isee. Dopodiché una miriade di prestazioni non sono razionalizzate in funzione di un obiettivo, ma sono il frutto di una serie di interventi fatti da un'amministrazione all'insaputa di un'altra amministrazione. C'è una dispersione abnorme di risorse: così non si riesce a cogliere il bersaglio».
Quale potrebbe essere una soluzione?
«Una razionalizzazione del sistema. L'esempio più assurdo è il reddito di cittadinanza. Come dice l'Istat, In Italia per contrastare la povertà è stato molto più utile l'assegno unico: a fronte di una spesa di 7 miliardi, la povertà si è ridotta del 3,4%. Il reddito di cittadinanza, invece, è costato in totale 28 miliardi di euro e ha diminuito il numero di poveri dell'1,4%. L'assegno unico ha funzionato perché è una forma di sostegno alle famiglie e mira prevenire la povertà: tutto il sistema del welfare dovrebbe essere diretto a ridurre il rischio di impoverimento».
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