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Christine Lagarde, l'errore che ci farà schiantare

Michele Zaccardi
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«Wall Street e la Fed hanno fallito nel prevedere il 2022». Il titolo di un articolo del Wall Street Journal non lascia spazio a dubbi: la banca centrale americana ha sbagliato nel calibrare i suoi interventi. Siccome credeva che l'inflazione nel 2021 fosse transitoria, la Fed ha aspettato fino a marzo di quest' anno per aumentare i tassi di interesse. Così, per inseguire i prezzi, è stata costretta a varare ben quattro maxi rialzi da 75 punti base. Ora i tassi oscillano tra il 4,25% e il 4,50% e, finalmente, sembra che l'inflazione sia tornata su un sentiero discendente. A fine novembre è calata al 7,1% annuo dal 7,7% di ottobre. Il prezzo pagato è stato comunque alto. L'indice Standard&Poor' s ha perso il 19% in un anno e rischia di registrare la peggiore performance dalla crisi finanziaria del 2008.

 

 

 

Tuttavia, la scelta della Fed di ingaggiare una lotta senza quartiere contro l'inflazione era quasi obbligata. Doveva infatti reagire a un surriscaldamento dell'economia, innescato dai lauti sussidi anti Covid varati dall'amministrazione Biden. Una situazione completamente diversa da quella dell'eurozona dove a spingere l'inflazione è stata, in primis, la crescita dei prezzi dell'energia. La Bce, però, ha deciso di seguire la Fed: ripetuti aumenti dei tassi di interesse, l'ultimo il 15 dicembre, quando il board ha deciso di alzarli di 50 punti base, portando quello principale al 2,5%. Insomma, si è voluto contrastare un'inflazione da offerta, dovuta ai rincari energetici, con lo stesso strumento che si usa per combatterne una da domanda, causata da consumi troppo vivaci. I risultati sono impietosi: a novembre l'inflazione era ancora al 10% (in Italia al 12,6%). Ovviamente i prezzi hanno rallentato la loro corsa rispetto al +10,6% di ottobre, ma con il rischio di recessione che si fa sempre più concreto.

 

 

 

DETERMINAZIONE

Non a caso la decisione del 15 dicembre di alzare i tassi e di ridurre il bilancio, lasciando scadere a partire da marzo 15 miliardi di euro di titoli di Stato ogni mese, ha suscitato le dure reazioni di diversi esponenti del governo italiano. Lo spread si è infatti impennato oltre i 220 punti base, mentre il rendimento del Btp decennale ha sfiorato il 4,5%. Reazioni che, però, non hanno scalfito la determinazione di Francoforte nel proseguire sulla stretta monetaria. La Bce, ha dichiarato Isabel Schnabel, membro tedesco del comitato esecutivo, deve «raggiungere un tasso d'interesse che sia alto abbastanza da riportare l'inflazione al 2%», e cioè superiore al 3%. Insomma, dalle parti di Francoforte non ne voglio sapere di allentare la stretta. «Possiamo aspettarci ulteriore opposizione e dobbiamo resistere» ha detto Schnabel, aggiungendo che «ai governi in generale non piacciono molto gli aumenti dei tassi» «perché rendono più costoso emettere nuovo debito».

 

 

 

Ed è proprio questo che ha messo in allerta Palazzo Chigi. L'Italia, infatti, l'anno prossimo dovrà emettere circa 320 miliardi di euro di titoli di Stato. Il tutto senza l'ombrello della Bce. Che già nei mesi scorsi ha ridotto i propri acquisti di debito italiano, nonostante i reinvestimenti promessi attraverso i due programmi, il Pspp e il Pepp. A novembre i titoli comprati con il Pspp, interrotto a luglio, erano pari a 429,4 miliardi di euro, in calo di quasi 3 miliardi su ottobre. Questo mentre nell'ambito del Pepp pandemico, terminato a marzo, tra ottobre e novembre i titoli italiani detenuti sono diminuiti di 800 milioni di euro, attestandosi a quota 287 miliardi di euro.

 

 

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