Emmanuele Massagli (presidente AIWA): "Bonus smart working? Misura sfumata. Ecco come rilanciare i consumi"
È di queste settimane la notizia dell’intenzione del governo di introdurre un “bonus smart working” per compensare le mancate entrate dei dipendenti, tra cui quella del buono pasto, e per coprire le spese sostenute per il lavoro da remoto. Cosa ne pensa?
La proposta è ancora sfumata e pare costruita attorno ad una redistribuzione di risorse risparmiate nella sola pubblica amministrazione. Ad ogni modo è una ipotesi discutibile per due ragioni.
La prima è di ordine generale: se si accetta, anche indirettamente (e così lo si sta facendo), che lo smart worker può essere pagato meno, si fa un grande danno allo smart working stesso. I lavoratori lo respingeranno e le aziende che lo adotteranno saranno apostrofate come opportuniste, anche quelle che davvero lo concepiscono come una nuova e genuina forma di organizzazione del lavoro. Il principio di parità di trattamento economico già presente nella legge sul lavoro agile va salvaguardato, tanto per la componente monetaria, quanto per quella sociale (il welfare aziendale).
La seconda ragione è pratica. Il governo aveva già introdotto una misura efficace a favore dei lavoratori in lavoro agile con il decreto Agosto: l’aumento della soglia di deducibilità dei fringe benefit da 256 euro a 516 euro. Si tratta di una forma molto semplice di welfare che permette di riconoscere a qualsiasi dipendenti (agile o non agile) una contenuta cifra annua (appunto 516 euro) utile all’acquisto di prodotti che rispondono ai bisogni della persona. In questo periodo tale importo è stato destinato da lavoratori agili all’acquisto di prodotti per l’igiene della casa (alcool e detersivi), per la protezione personale (mascherine e guanti) e per la didattica a distanza dei figli (tablet, connessione internet, cuffie). Abbiamo osservato anche l’acquisto di sedie ergonomiche e complementi di arredo funzionali al lavoro da casa. I Ministeri competenti avevano promesso la proroga di questa misura anche per il 2021, ma così non è stato. Al contrario, si vuole ora spendere di più per una misura una tantum che, come chiarito, è anche problematica per la tenuta dello smartworking. Perché? Aggiungo che un recente studio Ambrosetti stima che mantenendo la soglia di esenzione a 516 euro, si genererebbero 1 miliardo 600 milioni di euro di consumi nel paese (+251,5 euro pro-capite): è una soluzione assai vantaggiosa anche per lo Stato, chiamato a combattere con i processi di deflazione.
Che altro si poteva fare per rilanciare i consumi nel Paese?
Un’altra misura che poteva rilanciare i consumi, oltretutto in maniera sostenibile, era quella per il sostegno della micromobilità e lo sharing di mezzi ecologici. In un emendamento alla legge di Stabilità si prevedevano incentivi alle imprese per offrire ai propri dipendenti soluzioni di mobilità green. Tale misura sarebbe anche molto coerente con il “bonus mobilità” assai sospinto dal Governo. Concretamente, si tratta di riconoscere al datore di lavoro un ammontare defiscalizzato da destinare ai dipendenti per l’acquisto o il noleggio di mezzi per la micromobilità sostenibile (biciclette ordinarie o a pedalata assistita, monopattini, etc.) consentendo così ai lavoratori di spostarsi da e verso l'ufficio evitando di affollare i mezzi pubblici e senza inquinare. Qualcosa di questo genere è già previsto in Francia e Belgio. Come mai il nostro Parlamento non ha considerato questo ampliamento dei servizi di welfare aziendale, che sarebbe stato a costo zero?
Con lo smart working, tra i primi benefit a essere stati sospesi sono stati i buoni pasto. Il dipendente che lavora da remoto non ne ha diritto?
Alcuni media continuano a parlare erroneamente di incompatibilità tra buoni pasto e lavoro da remoto. È vero il contrario. La legge sul lavoro agile (legge 81 del 2017), all’articolo 20 è chiara: il datore di lavoro ha l’obbligo di riconoscere al lavoratore agile lo stesso trattamento economico e normativo complessivo del lavoratore dipendente. Se chi opera in sede riceve buoni pasto e welfare, devono essere concessi anche a chi lavora da casa, a meno che un accordo sindacale disponga esplicitamente in senso diverso (vi sono dei casi, ma è raro). Non solo. L’ultima riforma organica del buono pasto (decreto 122 del 2017 emanato dal Mise) prevede che questo strumento sia usato anche cumulativamente nella spesa di beni alimentari per potersi cucinare il pasto a casa, per poi consumarlo in ufficio o, perché no?, anche nel proprio salotto quando si lavora da remoto. Chi sostiene il contrario è probabile che abbia interessi economici nel non riconoscere quello che ancora oggi è il benefit preferito dai dipendenti.
Dopo quasi un anno di lavoro agile “forzato” a causa dell’emergenza sanitaria, in che modo dovrebbe evolversi ora lo smart working e il rapporto tra azienda e dipendenti?
L’Istat ha certificato la minore produttività nel lungo periodo del lavoro agile quando non genuino, ma “forzato”, obbligato dalla azienda senza il suo inserimento in un più ampio piano di organizzazione dei lavori collettivi e individuali. Tante e autorevoli ricerche hanno anche dimostrato l’insoddisfazione dei dipendenti verso questa modalità di esecuzione della propria prestazione quando improvvisata o giustificata solo dall’emergenza sanitaria. È indubbio che grazie al lavoro da casa si sia difeso il reddito delle famiglie durante il lockdown, ma ora bisogna avere il coraggio e la competenza di guardare un po’ più lontano. In questo senso si potrebbe pensare che il lavoro agile sia meglio pagato per il dipendente, proprio perché permette un risparmio alla impresa. Il ripensamento dei permessi e delle pause libera risorse che non possono essere interamente introitate dall’azienda, ma che vanno redistribuite al dipendente. Una idea è che siano riconosciute sotto forma di soluzioni di welfare che rendano il lavoro da casa più sostenibile, salubre e sicuro, oltre che economico grazie al diverso trattamento fiscale e retributivo del welfare aziendale.