Mario Draghi, il suo errore più grande? Disprezzare il Parlamento
Era un peccato che gli estimatori e sostenitori di Mario Draghi non capissero, nei giorni scorsi, quant' era sbagliato e persino controproducente suonare i tromboni della loro retorica nel racconto del Paese mobilitato a richiedere che il presidente del Consiglio non mollasse. Non capivano, evidentemente, che celebrare l'Italia dei sindaci, delle Acli, dell'Arci, delle cooperative, di Legambiente e insomma di tutta la fiera strapaesana adunata a sostegno del governo (mancavano solo i ragionieri associati, il sindacato dei bidelli e i plenipotenziari delle sale da ballo) significava aggiungere l'ultimo fiocco populista sull'abitudine italiana di impacchettare il potere in un'eterna soluzione commissariale.
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E puntualmente Mario Draghi, nel suo discorso di ieri, è caduto nella rete che irresponsabilmente quella stampa gli ha preparato nell'intento di sostenerlo ma col risultato di ingarbugliarlo. Lui pensava, probabilmente in buona fede, che fosse davvero appropriato fare appello all'Italia dei municipi e dei loggioni che si era manifestata in suo favore; e ancora in buona fede, forse, credeva che fosse cosa giusta opporla a quella parlamentare che invece non mostrava una corrispondente propensione. Per due volte, dunque, Mario Draghi ha evocato gli italiani: prima, per dire che era lì soltanto per loro (no, presidente, era lì perché c'è questa cosa che si chiama Parlamento, una cosa che non dovrebbe servire solo quando vien buona per farsi mandare al Quirinale); e poi per dire che era a loro, a quegli italiani che si erano mobilitati per lui, che il Parlamento doveva rispondere (no, presidente, è lei che deve rispondere al Parlamento; ma deve farlo spendendo il proprio nome, non quello degli italiani che non l'hanno votata).
Che poi si tratti di assemblee legislative non propriamente invidiabili, folte di gente che un Paese civile non sottrarrebbe alle più urgenti necessità dell'agricoltura, è una desolante verità abbastanza difficile da contestare: ma resta che quelle abbiamo, quelle dobbiamo tenerci e a quelle bisogna purtroppo fare riferimento, almeno finché un voto non le cambia. Salvo credere che l'ignominia parlamentare debba inchinarsi non si sa perché né in base a quale criterio alla competenza indiscutibile del banchiere del popolo che non ha tempo da perdere con simili scocciature.
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La verità è che Draghi avrebbe potuto tenere esattamente lo stesso discorso, con gli stessi argomenti, con la stessa forza, con le stesse prospettive, evitando tuttavia di tirare in mezzo il presunto accreditamento popolare di cui godrebbe la sua azione. E se lo avesse fatto, se non si fosse per due volte esercitato in quell'ingenuo ma imperdonabile esperimento di auto-legittimazione, avrebbe opportunamente evitato di esporsi al rimpallo contro-demagogico messo in scena da quelli che a quel punto, a buon diritto, mettendosi sullo stesso piano, si son posti a rappresentanza dell'Italia (esisterà pure) che preferiva l'avvocato del popolo o, perché no?, un qualsiasi altro che una buona volta non sia avvocato di niente. Mario Draghi è Mario Draghi, per carità. E tutti gli altri, per così dire, non sono abbastanza. Ma, per dimostrarlo, la via populista alla nobiltà governativa era davvero la meno indicata.