Aborto, un terzo punto di vista: e se la gravidanza non fosse davvero un dovere?
Forse, rispetto a quelli normalmente adoperati e contrapposti, sull'aborto ci sarebbe un terzo punto di vista. Ed è il seguente. Fai pure che si sia tutti d'accordo che l'aborto è un delitto, che ricorrervi sia moralmente riprovevole, che la scelta di interrompere la gravidanza oltraggi un diritto autonomo e prioritario e che la donna, compiendo quella scelta, interferisca in una sfera individuale che non è sua anche se la porta dentro sé stessa. Tutto quel che si vuole.
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E fai, poi, che si sia tutti d'accordo che occorra predisporre politiche di prevenzione, di dissuasione, di sostegno, di conforto materiale e sociale affinché quel delitto non abbia corso (magari qui ci si dividerebbe se qualcuno osservasse che tra le politiche di prevenzione ci sarebbe la cultura e la pratica profilattica, ma lasciamo perdere). Bene. E che cosa succede se la donna, pur in presenza di un ordinamento sociale che qualifica l'aborto come omicidio, e adotta ogni possibile politica rivolta a prevenirlo, e le assicura ogni solidarietà e aiuto affinché non si abbandoni a quel gesto criminale, che cosa succede quando essa intende, tutto ciò non ostante, interrompere la gravidanza?
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La leghiamo su una sedia per nove mesi finché non si sgrava? Le diamo un flagello con cui contenere la propensione omicida? Andiamo in tribunale e chiediamo la nomina di un custode - il marito, il fratello, o magari quello che l'ha stuprata che sorveglia la crescita del pancione? Quando si capirà come si pretende di risolvere - concretamente, non a teorie sbandierate - questo problema, allora il discorso sarà meno ambiguo. Per la donna che ritiene di voler o dover abortire, qual è l'alternativa all'interruzione della gravidanza? La gravidanza forzata?