Mario Draghi, ecco perché il bis a Palazzo Chigi non conviene a nessuno
Certo, i partiti fanno il loro gioco e le dichiarazioni dei loro leader non sono mai da prendere alla lettera. Non perché barino, ma perché il campo da gioco è mutevole e non lo disegnano solo le loro intenzioni ma anche le situazioni di fatto, che cambiano continuamente. Non si può non tener conto però di una circostanza verificatasi ieri: nel giro di poche ore i leader dei maggiori partiti italiani hanno sentito l'esigenza di sottolineare la loro indisponibilità a metter su un governo come quello attuale dopo le prossime politiche. «Lo dico con chiarezza: non saremo la protezione civile», così ha affermato Enrico Letta. E Matteo Salvini ha ribadito che «altri governi con il Pd non ce ne saranno più». In un forum dell'Ansa, qualche ora prima degli altri, anche Giuseppe Conte aveva detto «no a un governo di unità nazionale dopo le elezioni». Quanto a Giorgia Meloni, il problema per lei non si pone nemmeno: le larghe intese non le ha mai volute, la sua coerenza ha pagato in termini di consenso, e non si vede perché un domani dovrebbe cambiare idea.
Questa unità di intenti sul futuro politico è fatta sicuramente dai partiti per rinserrare le proprie fila, e per segnare "in negativo" un'identità forte che forse non hanno: un tempo i partiti della Prima Repubblica non ne avevano bisogno tanto che, anche quando proponevano "compromessi storici", nemmeno sentivano la necessità di "rassicurare" più di tanto i loro fedelissimi. Essa però segnala anche lo stato di degrado e deterioramento a cui è giunto il rapporto fra i partiti, e quindi la vita del governo, a un anno e passa dall'insediamento di Draghi a Palazzo Chigi. È come se le ragioni dello stare insieme fossero scemate, nonostante che alla prima emergenza, quella pandemica, se ne sia aggiunta nel frattempo una seconda forse ancor più grave, quella della guerra con le sue drammatiche conseguenze economiche e geopolitiche.
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C'è però una ulteriore emergenza che andrebbe aggredita con risolutezza, di cui nessuno parla, e che però forse inconsciamente i partiti avvertono quando dicono "mai più con gli altri": è l'emergenza democratica, quella cioè della qualità delle nostre democrazie, che tende inevitabilmente a scadere quando per troppo lungo tempo il conflitto politico è costretto ad esprimersi a parole a cui però non possono corrispondere fatti concreti. La democrazia sana, anche in periodi difficili, vive della possibilità di scontrarsi e misurarsi alle urne in modo che siano i cittadini a fare una scelta chiara su chi governa e chi sta alla opposizione. Una scelta che, fra l'altro, permetterà loro di individuare con precisione le responsabilità politiche degli uni e degli altri, agendo di conseguenza alle successive elezioni. Non pochi dei "mali storici" dell'Italia derivano dalla mancanza di questa dialettica: per motivi internazionali un tempo, per motivi di supposta tenuta e coesione sociale oggi. Una coesione realizzabile in questo modo solo in rare occasioni di "emergenza", con governi di unità che devono essere appunto una eccezione e non una regola. La politica, e quella democratica in primo luogo, è viva solo quando si può scegliere democraticamente fra alternative diverse: in politica non si dovrebbe mai pronunciare, se non retoricamente come fece una volta Margaret Thatcher, l'espressione. "non ci sono alternative!". Capisco che può essere controintuitivo, ma il conflitto vero, non quello parolaio, è qualcosa di positivo per le nostre società, anche quando sono in difficoltà: Niccolò Machiavelli, che se ne intendeva, amava osservare che la grandezza ineguagliata di Roma ci fu quando la lotta politica fu aspra, cioè nel periodo repubblicano, mentre la decadenza iniziò proprio al tempo della "pax imperiale". Quella di un nuovo Draghi dopo Draghi è una suggestione che dobbiamo abbandonare per amor di Patria.