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La "sinistra" compagnia degli anti-americani: da Togliatti a Stalin e fino a Putin...

 Vladimir Putin

Francesco Carella
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Non era necessario attendere le manifestazione del 25 aprile ed ascoltare la colonna sonora che le accompagnava a base di slogan contro gli Stati Uniti e la Nato, per avere contezza di quanto profondo fosse l'antiamericanismo nella sinistra italiana. Si tratta di una forma mentis la cui formazione deve essere ricondotta al Secondo dopoguerra, allorquando nel settembre 1947 in occasione della prima riunione del Cominform, fu approvata una risoluzione che prevedeva uno «scontro frontale tra comunismo e capitalismo» con il bersaglio principale indicato negli Usa e nei suoi alleati. 

 

La campagna anti-yankee che si scatenò nel nostro Paese avvenne senza esclusione di colpi. Per Palmiro Togliatti gli «americani sono un popolo egoista che non conosce altro Dio che il dollaro... hanno un solo interesse: fabbricare e vendere armi con l'obiettivo di scatenare una nuova guerra». Le parole del segretario del Pci risultano incredibilmente simili a quelle di un esponente di punta del fascismo, Roberto Farinacci, il quale nel 1936 parla di «disordinata frenesia americana in un Paese dove solo Dio e sola morale è il dollaro».

Le critiche, sia quelle del Ventennio che quelle avanzate dalla sinistra, puntavano alla delegittimazione del sistema democratico americano considerato, come ricorda Luciano Pellicani, «espressione di un Occidente marcio dominato dallo spirito borghese e pieno di corrotti e corruttori». In un contesto politico siffatto, il voto contrario dei parlamentari comunisti nel marzo 1949- quando sia alla Camera che al Senato venne approvata l'adesione dell'Italia alla Nato - fu del tutto scontato.

Da lì in poi non si conteranno più le manifestazioni organizzate dai partigiani della pace - ordinate da Stalin per guadagnare tempo in attesa della costruzione della bomba atomica- segnate da violenti slogan anti Nato. Intanto, negli anni fra i' 60 e i '70 si consuma il passaggio dall'antiamericanismo strumentale agli interessi sovietici all'antiamericanismo culturale inteso come rifiuto della civiltà capitalistica. Dall'indebolimento della famiglia al declino della comunità, dalla distruzione dell'ambiente alla scomparsa delle tradizioni locali, tutto viene puntualmente attribuito all'opera malefica esercitata sui Paesi occidentali dagli Stati Uniti d'America. Come scrive il sociologo Paul Hollander «a volte queste idee fanno breccia solo su singoli individui, altre volte, purtroppo, sostengono i comportamenti di un gruppo etnico, di un movimento politico, di una setta religiosa o, nel caso peggiore, di una nazione intera».

 

Ed è ciò che sta accadendo da decenni con il fondamentalismo islamico e da alcuni anni con la politica aggressiva della Russia culminata nel febbraio scorso nell'invasione dell'Ucraina. Vladimir Putin ha chiarito in più occasioni che il nemico principale di Mosca è rappresentato dalla modernità e che essa va combattuta in nome della «tradizione e degli antichi valori comunitari». Idee che si ritrovano nel reciso rifiuto dei processi di liberalizzazione da parte del mondo islamista. «Il terrorismo islamico», sostiene Hollander, «è solo l'ultima e più crudele versione di una malattia che nel secolo scorso ha mostrato tutta la sua distruttività attraverso il nazifascismo e il comunismo. Questa patologia si chiama odio della modernità e di tutti i suoi simboli». Coloro che il 25 aprile hanno bruciato la bandiera americana, urlato contro la Nato e lanciati insulti vergognosi contro la Brigata ebraica a Milano sono in buona compagnia.

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