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Studenti in piazza? Cori di 50 anni fa: questi sono fermi all'ideologia del Sessantotto

Corrado Ocone
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C'è un elemento che stona nelle manifestazioni di protesta degli studenti che ieri hanno riempito le piazze italiane. Non si tratta né degli obiettivi immediati della protesta, né del profondo disagio che esprime, e neppure dei metodi che accompagnano le manifestazioni e che a volte (come ieri a Torino) sfociano in atti violenti. Protestare contro l'alternanza scuola-lavoro, prendendo spunto da due tragici avvenimenti recenti, è direi giusto se si pensa a come essa è attualmente strutturata. 

D'altronde, una scuola che non riesce a garantire il minimo di apprendimento ai suoi studenti può permettersi progetti che necessiterebbero di tutt' altra base culturale? L'impressione è che ci troviamo di fronte ad una ciliegina messa su una torta che non c'è. Quanto al disagio, come immaginare che esso non venisse platealmente fuori dopo due annidi scuola a singhiozzo? Gli esecrabili atti di violenza sono uno degli effetti di questo disagio. In ogni caso, l'elemento che più colpisce e stride nella fenomenologia di questa vasta popolazione studentesca è l'armamentario ideologico che risuona negli slogan, che riaffiora nelle idee che emergono. In effetti, sembra che in questi studenti, che pur son giovanissimi e vivono in tutt' altro mondo rispetto a quello dei loro padri, non vi sia la minima capacità di fare un passo avanti rispetto a quel sessantottismo che pure era già ai tempi del suo primo manifestarsi in ritardo rispetto alle evoluzioni del mondo. 

Il Sessantotto, almeno quello italiano, non ha saputo cogliere le nuove fratture che la tarda modernità produceva rispetto a quelle che erano state messe in luce dai socialismi classici. Fa in un certo senso tenerezza, e per un altro rabbia, sentir gridare o leggere sui cartelli espressioni come "governo dei padroni", "potere al popolo", "sfruttamento capitalistico", "morti di Stato". Opportunamente accompagnati da riferimenti ai miti del momento: l'ambiente, la fluidificazione dei generi; oppure dall'accusa alla Consulta di aver affossato i referendum concernenti quegli evergreen del senso comune di sinistra che sono la liberalizzazione delle droghe e l'eutanasia. È come se questi giovani non si rendessero conto che se la scuola è arrivata dove è, e più non li forma, è proprio per il predominio, ad esempio nel corpo docente, di quelle idee che, lungi dall'essere ancora "rivoluzionarie" (ammesso e non concesso che mai lo siano state), sono oggi pienamente inglobate nel sistema che le sa rendere perfettamente funzionali ai propri fini. I giovani chiedono alla scuola di dare loro strumenti per "analizzare e trasformare la società" e sicuramente hanno ragione sul primo punto, ma non sul secondo: all'istituzione non tocca farsi palestra di trasformazione, né avvalorare pertanto un'idea di "impegno" nella società già preconfezionato, un "pensiero unico" del "politicamente corretto" a cui attenersi. La sintesi pratica la faranno loro stessi, agendo nella società, e sarà tanto più adeguata quanto più la loro personalità sarà stata informata ai canoni del pensiero puro e disinteressato. 

Questo e non altro dovrebbe chiedersi alla scuola. Le stesse aziende hanno bisogno che la scuola non dia loro apprendisti, ma prima di tutto esseri maturi. E quanto all'aziendalismo, esso, per come si sono messe le cose, in Italia copre con la sua retorica il vuoto di fatto che permea l'istituzione. Più che di Draghi o del ministro Bianchi, le responsabilità della situazione in atto a me sembrano essere tutte in capo a quella falsa idea di voler democratizzare la scuola che ha da decenni conquistato le nostre menti. E che, con diversi timbri e da diverse prospettive, risuonano nelle parole e motivano gli atti di governanti, docenti e persino studenti protestanti.

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