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Giorgio Napolitano, le "manovre infernali" al Quirinale: retroscena, così l'ex comunista ha rovinato il nostro Paese

Vittorio Feltri
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La Breda, gloriosa fabbrica di Sesto San Giovanni, non c'è più. In compenso l'omonimo Marzio è un'officina sempre aperta, almeno fino a quando resterà in funzione il Quirinale, di cui è un padiglione ormai istituzionalizzato come i corazzieri, con la differenza che loro ascoltano e tacciono, lui ascolta e scrive, in funzione di oracolo pressoché infallibile. È come si dice in gergo il quirinalista del Corriere della Sera e lo è dal momento stesso in cui fu inventata circa trent' anni fa questa specialità giornalistica, creata per far fronte all'uragano del Picconatore. Da quel dì lui monta la guardia nel cortile e nelle segrete stanze di quel Palazzo, i cui inquilini al massimo raddoppiano il mandato come capitò a Napoletano: Marzio lo ha quintuplicato riuscendo a non essere tedioso, che non è poco. Lo dimostra in questo suo godibile volume (Capi senza Stato: I presidenti della Grande Crisi italiana, Marsilio, pagine 224, 18) che è sì un raffinato un saggio politologico ma offre al lettore un'esplorazione inedita e ravvicinata come in un documentario di Alberto Angela su personalità e fatti che credevamo di conoscere come le rovine di Pompei, e invece ci sono squadernati freschi e gustosi come protagonisti della nostra memoria.

 

 

Breda inizia il suo lavoro con Francesco Cossiga, perché prima di allora, in quell'antica dimora dei papi passata al presidente della Repubblica, non accadeva nulla. Funerali con Pretini, compreso quello di Breznev e Provando. Taglio dei nastri in antecedenza. Austerità con Luigi Einaudi che risparmiava anche sulla pera, di cui si cibava di una metà riponendone il resto per il frugale desco successivo, meno sobrietà e più ebbrezza con Giuseppe Sagrato, detto alza barbera. Con Giovanni Leone si verificò il curioso fenomeno che di lui e della sua famiglia si scrisse di tutto e di più per costringerlo alle dimissioni, ma fu tutto inventato. Balle. Chiacchiericcio che fece la fortuna pecuniaria di Camilla Cederna e Feltrinelli, poi condannati in Tribunale, ma ormai il lavoro di liquidazione del grande avvocato napoletano era stato compiuto. Curiosa sorte di un penalista che aveva tirato fuori dai guai tutti gli altri, ma non era stato capace di difendere sé stesso: perché in quel Palazzo, con tutto quel potere, si è soli, e abbandonati. Questo spiega quel «Il Capo senza Stato».

 

 

Le cose non sarebbero cambiate probabilmente se a scrivere per il Corriere della Sera le cronache dal Colle ci fosse stato Marzio Breda - la decapitazione di Leone fu decisa dal Pci con il silenzioso consenso di Benigno Zaccagnini e con la spinta di Marco Pannella, che poi chiese scusa -, ma i calunniatori avrebbero trovato un osso duro, e meno tardiva la sua riabilitazione. È un saggio ed è un racconto, come lascia intendere l'azzeccato titolo. Ma la teoria qui non è un mattone all'occhiello di una cronaca che va per conto suo. Il risultato è notevole. Si comprende come il ruolo del Presidente della Repubblica sia cambiato a seconda dei tempi e delle personalità incoronate il cui potere, ed è l'unica cosa sicura, evolverà ancora, sempre a partire da questi due fatMarzio Breda Capi senza Stato tori, qualche volta in sintonia tra loro, in altri casi no. Un guazzabuglio. Confessò Francesco Cossiga all'autore poco prima di morire, riferendo un suo dialogo con presidenti emeriti come lui: «I nostri poteri sono altissimi e vaghissimi, imprecisati e imprecisabili». Il risultato è che la più alta carica dello Stato a volte funziona a pallettoni, in altri casi spara ovatta per smussare e coprire, ma comunque con facoltà sovranamente indiscutibili, come Carlo Azeglio Ciampi e Sergio Mattarella. I quali, carta canta, sono i due preferiti dall'autore tra i cinque ritratti in azione.

Nessuno è bocciato però. Ognuno è narrato con rispetto. Nessun ladro né farabutto lassù ci fa sapere. Cossiga agì a fucile spianato, per scuotere il sistema onde impedire che la democrazia defungesse dopo la caduta del muro di Berlino e l'affermarsi da lui previsto dello strapotere di una magistratura eversiva. Scalfaro, che era partito per esserne l'esatto contrario, finì per esercitare sia a parole sia con atti e decisioni un potere personale eccezionale. Di segno contrario però, e assai filo Mani Pulite. E qui espongo subito una differenza di valutazione rispetto a Breda. Marzio critica Cossiga, pur provandone simpatia, e gli imputa «catastrofismo» e imperizia per aver introdotto «massicciamente, e maldestramente, le esternazioni». Insomma avrebbe esagerato perché con la «verticalizzazione del potere in chiave presidenzialista, paradossalmente ha indebolito» lo Stato e le sue istituzioni. Sentenzia Breda: «La contestazione demolitoria non coincide con il riformismo. Al punto che oggi non c'è più in Italia un'istituzione che abbia autorevolezza». Aparte che il riformismo te lo raccomando, sarebbe pertanto colpa di Cossiga la rovinosa perdita di credibilità della politica? Ma dai, Marzio... Invece salvi Scalfaro usando una battuta di Indro Montanelli che lo esaltava come esimio frutto della «ragion di Stato», che «per disgrazia ricevuta» ha salvato l'Italia? Come direbbe Oscar Luigi: «Non ci sto».

Marzio elogia anche Giorgio Napolitano, del quale nega una volontà anche solo lontanamente antidemocratica da vecchio bolscevico malpentito. Ne ammette l'interventismo e la volontà di dirigere i comportamenti di governo e Parlamento, ma lo innalza a missionario dell'ideale: «L'assillo di Napolitano e la sua missione (sono stati): arrivare al reciproco riconoscimento tra schieramenti e all'affermarsi di una matura democrazia dell'alternanza, stabilizzando il bipolarismo». Sarà stata nobiltà d'animo, ma di queste manovre infernali è ancora lastricato il nostro inferno. Il quirinalista di via Solferino non riserva la stessa generosità a Silvio Berlusconi che ritrae, citando Giorgio Bocca, come «piccolo Cesare» affetto da «opportunistica doppiezza». Gli altri, tutti immacolati, caro Marzio? Poi venne, e c'è, Sergio Mattarella con il privilegio dato alle «"testimonianze civili", per far sviluppare negli italiani l'idea della cittadinanza attiva e di uno Stato-comunità»: qualunque cosa questo elogio significhi, si intravede in queste parole il profilo rasserenante del canuto democristiano di sinistra, di cui personalmente ho apprezzato tra le altre cose l'esercizio finale della grazia nei confronti di vecchi arnesi sudtirolesi.

 

 

Conclusione. Il libro è uno scrigno di perle. Ne raccolgo alcune. Scalfaro è «un onesto dinosauro» (Giampaolo Pansa scripsit), così consapevolmente pio, devoto e tanto umile da «inserire sé stesso nelle Sacre Scritture. "Il giorno della pesca miracolosa, io c'ero. Ho visto quando il Signore ha detto a Pietro di gettare le reti... e Pietro poi mi ha confidato..."». Arriva, in empito di misericordia bergogliana, a «riabilitare persino l'Iscariota. «Ah, quel galantuomo di Giuda. Ha detto: "ho tradito il sangue di un innocente". Più sincero di così! Oggi si usa tradire, prendere i soldi, non riconoscerlo». Arduo non dargli ragione. Ciampi racconta a Breda i suoi dialoghi con Giovanni Paolo II sul destino ultimo, sull'aldilà, e alla fine giudica le domande sulla politica e sul Quirinale delle fesserie. Come tanti di noi. Il libro è finito, Marzio Breda continua. Hic manebimus optime: senza perdere il piglio del neofita innamorato e avendo acquistato il cinismo dell'esperienza si avvia alla sesta sinfonia quirinalizia, che come quella di Beethoven tutti speriamo sia la «Pastorale», cioè che regali pace e bene, anche se le premesse sono quelle del solito casino.

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