Mimmo Lucano e la filosofia della sinistra: quando (per loro) infrangere la legge è giusto
Che una classe politica sostanzialmente immatura abbia usato in questi anni le sentenze della magistratura per i suoi interessi immediati, è evidente. In tanti, a sinistra come a destra, sono stati giustizialisti con i propri nemici e garantisti coi propri amici, e proprio per questo incapaci di fare fronte comune e porre un argine a una magistratura politicizzata e trasbordante dai suoi limiti costituzionali. Che però anche esimi uomini o donne di cultura abbiano assunto e assumano atteggiamenti faziosi e unilaterali in tema di giustizia, desta non poca preoccupazione. Significa che la mentalità comunista per cui anche la legge va prostituita agli interessi di parte, e che perciò esista una responsabilità o non responsabilità "oggettiva" indipendentemente dal dettato formale del dritto e dal rispetto delle regole, è ancora diffusa e pervasiva. É l'abc dello Stato di diritto, in sostanza, quello che viene qui a mancare, con grave pericolo per tutti.
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Una prova particolarmente pessima l'ha data ieri Donatella Di Cesare, una filosofa tanto eccellente nel campo degli studi quanto faziosa in quello politico, nel suo commento su La Stampa alla sentenza di condanna di Mimmo Lucano. In verità, Di Cesare non è ipocrita (come in molti dalle sue parti politiche), anzi gioca a carte scoperte: il diritto, per lei che si definisce anarchica e comunista, «non si riduce a un meccanismo formale, un'operazione sillogistica, ma è l'interpretazione di gesti e azioni umane in un contesto storico, politico e culturale». Chi èche poi compie questa interpretazione e in base a quali pregiudizi, che era poi il problema di Gadamer, il grande filosofo tedesco alla cui scuola ella ha studiato, Di Cesare non se lo pone proprio. O meglio, per lei l'interpretazione plausibile è una sola: giusta è la sentenza che assolve o dà il minimo della pena a chi delinque "a fin di bene" e ingiusta quella che fa il contrario o agisce così anche coi "fascisti" (un concetto per Di Cesare tanto ampio da includere, in sostanza, chiunque la pensi diversamente da lei). E chi più di Lucano può essere considerato un novello Robin Hood: uno che «ha sacrificato letteralmente tutto per gli altri, persino gli affetti più cari. E vive in grandi difficoltà, si vorrebbe dire in povertà»?
Ora, aparte questa "infantile" retorica e mitopoiesi, l'elemento che pure va considerato è che, formatasi nelle infuocate assemblee sessantottine, a Di Cesare è rimasto sempre, come una sorta di riflesso pavloviano, quello di considerare "fascista", sotto sotto, anche lo Stato e la polizia. E ogni tanto questo suo tratto intellettuale emerge. Il caso di Lucano non poteva perciò che rimettere in moto in lei gli spiriti a mala pena riposti, tanto più che l'ex sindaco di Riace, nella visione semplicista delle cose politiche che ha la nostra filosofa, ha sì infranto la legge ma il suo delinquere era giustificato perché era "un battistrada, un visionario". In sostanza, la legge, lungi dall'essere (o provare ad essere) "uguale per tutti", deve essere clemente coi "visionari" (sic!). Non si capisce bene di cosa, ma forse non si va troppo lontano se si pensa a quella società senza confini e frontiere che la filosofa ha più volte affermato essere il suo ideale politico.
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Lo Stato "fascista" è oggi quello che fa emettere ai suoi giudici un verdetto che "è l'esito insieme di un conteggio spietato e di un palese pregiudizio coltivato e propagato negli anni". Da chi? Ovviamente, dai "sovranisti incalliti", che sono per Di Cesare la faccia nuovo del "fascismo eterno", e dei "predicatori d'odio", che altrettanto ovviamente è solo quello degli altri verso i propri amici non valendo mai il contrario. Da qui concludere, come fa la filosofa, che il verdetto di Locri è "una ferita inferta alla giustizia e un'offesa a tutti i cittadini", il passo è breve. Chissà se la Di Cesare pensa qualche volta a che inferno sarebbe uno Stato unico universale, con cittadini apolidi e senza identità, sempre alla mercé di giudici pronti a assolverli o condannarli per le loro idee e non per i loro comportamenti effettivi? In quel caso la ferita sarebbe inferta non solo alla giustizia ma anche alla libertà e dignità umana!